Parlo per me, perché nessuno
insegna niente.
Imparare sì, si può, ma
insegnare no.
Parlo per sentito dire,
perché bisogna parlare.
Di comunicare faccio a meno,
ma parlare è necessario: c’è di mezzo il corpo.
Chi non parla si ammala
Piuttosto straparlare,
abbandonarsi alla logorrea come fanno tanti
Tutto pur di fuggire la
maggioranza silenziosa, i cari estinti
Dare fondo a memoria e
rimasugli di futuro, schegge di nostalgia
Ricordo una merenda con l’ uovo
sbattuto, le tende a figure agro pastorali filtravano luce gialla.
Per esempio
Era l’infanzia, quando le
scuole finivano a maggio e riprendevano con ottobre, quando per quattro mesi ci
si inselvatichiva, sempre in mezzo ai campi, insieme ai contadini, il frinire
dei grilli, la meraviglia delle lucciole, il bagno serale a scongiurare
pidocchi e zecche
I racconti macabri e la crudeltà dei nonni a ridere del terrore sui
volti dei ragazzini
A staccare, un mese di mare,
Torvajanica Passo Scuro Terracina e poi
la casa ad Ardea, dove o ti salvi e impari a leggere o ti suicidi, come dice il
mio amico di Coccia di morto.
Adolescenza, tutto ancora
possibile
Tutti andati, i vecchi e i
ragazzini che eravamo
Mi parlo addosso
Parlo per me perché scrivere
è fatica
Parlo per me che
m’identifico.
Sono stata tutti i poeti che
ho letto. Mai sdraiata, sempre attenta. Poi ho smesso: ora mi dedico ad
ascoltare, ragiono sulle parole dell’altro, annoto.
E inevitabilmente
m’identifico.
Anche perché l’insofferenza è
la stessa, lo stesso dolore muto che finalmente parla.
Parlo per me che avevo dei numeri
e non ho saputo giocarmeli.
Dio sa se ho pagato. Santa pace in Gerusalemme
se ho pagato!
E’che lui era bellissimo e io
avevo vent’anni.
La bellezza dell’asina.
Quella dei cento colpi di spazzola.
Era bellissimo e si laureava
in ingegneria, amava il cinema, dipingeva.
La prima notte m’attirò a sé
e non ci separammo fino all’alba.
Nell’Isola dei Sardi.
Ci sposammo un anno dopo,
viaggio di nozze in Barbagia con la neve alta. Tre giorni di sesso, cibo e
allegria, un incanto. Quasi ineffabile. Come se le parole allontanassero dal
piacere del ricordo. Un piacere che m’è costato caro, vent’anni di Sardegna.
Parlo per me perché nulla è
più importante di parlare. Un muro di parole a difesa dalla miseria, quella di
dentro. Quella di fuori è nulla in confronto.
Parlo per me perché son
spietata, pietà l’è morta. Altro che il frinire dei grilli, le figure agro
pastorali, la luce gialla, la bellezza dell’asina, Coccia di morto…
Parlo per me perchè sono io
che parlo.
Ripeto all’infinito la mia
storia, non faccio altro
Prigioniera del passato in un
presente di orrore.
Dove vivo? Là, di fronte
all’Isola Tiberina, fra gli alberi, nascosta alla Polizia sopra Asclepio, il
mio Asclepio! L’unica creatura di cui m’importi ancora qualcosa. Il dio della
medicina: dal 232 avanti Cristo se ne sta là in quel lembo di terra in mezzo al
fiume, davanti a Ponte Rotto. Una nave, quella da cui scivolò fino all’Isola il
dio serpente, deciso a guarire Roma da una terribile peste. Lasciava la Grecia
e veniva a stare qui, di fronte a dove abito io. E ogni mattina quando mi
sveglio lo vedo.
Parlo per me perché sono
ridotta all’elemosina, ma il mio cuore è chiaro e Dio mi aiuta. Lui sa che sono
buona, lo ero e non si cambia.
“Vieni, vieni a vedere dove
dormo, due cartoni e due coperte là sotto” Allora lui tirò fuori cento euro e
disse:”Prendi, compagna”. Quella notte andai in albergo. Finalmente un letto. Poi,
quando presi la pensione da invalida riuscì a pagarmi una stanza, ne cambiai
undici in dodici mesi, un delirio.
Partivo all’improvviso, una
volta rincorsi con un treno che andava a Venezia un altro treno diretto a
Parigi. Ero folle. La mia Isabho direbbe fuori come un citofono.
Parlo per me perché non c’è
niente da dire. Tutto è stato detto ma non riesco a non parlare. E’ un continuo
che mi dà tregua tre ore a notte. Quando crollo intirizzita dal freddo, il naso
ghiaccio, le ossa rotte. Sotto le stelle o la pioggia, comunque all’aperto. Con
qualunque tempo. E Asclepio è sempre lì, sulla sinistra il caduceo dove
m’aggrappavo a far ginnastica per il braccio dopo zacchete! Mastectomia
radicale, un cancro aggressivo, quattro anni fa. Quattro anni di sfiga. Senza
frignare posso dire che da allora è andata sempre peggio. Fino a oggi, alla
miseria, alla vita di strada. Eppure che ricchezza, quante creature tutte
diverse. “Come è varia la vita”, dicevo di chi era seduto di fronte a me
durante la chemio (ride). Sembrava di stare da un parrucchiere speciale.
Terapia d’urto: taglio deciso ricrescita assicurata.
Parlo per me e rido se
ricordo la certezza di allora, essere al centro di un disegno di fantapolitica.
Che durante l’operazione mi avessero iniettato un messaggio di non sapevo bene
che. Sognavo di essere inseguita da fanatici di una setta decisi a tagliarmi
l’altro seno in un sacrificio. Correvo in sogno e nella realtà, sempre su di
giri. Aggrovigliata ai segni che captavo ovunque. Uno strazio, non una lagna.
Uno strazio!
Parlo per me perché allora
incontrai il conte di Saint Germain, l’immortale. Si sa che sia nato nel 1698,
ma non si sa quando sia morto. Se sia morto. Dicono di averlo visto ai giardini
del Pincio, come sempre ogni Natale, seduto su una panchina. Dicono abbia
trovato la pietra filosofale.
Ero convinta che il mio
oncologo fosse l’ultima veste del nobile settecentesco nato ad Asti. D’altronde
a mia discolpa c’è la quasi furia con cui il medico aggredisce la malattia nei
suoi pazienti. Poveretto: gli attribuivo svariate identità. Ora che mi
invecchia sotto gli occhi, posso dire sia mortale.
Parlo per me che ho tentato
tre volte il suicidio. Una volta tagliandomi le vene e altre due impiccandomi: sempre
caduta come un fagotto con il cappio appresso. Per fortuna. Oggi ci tengo alla
vita. Ci tengo e non ho paura di morire, nonostante la miseria. La vita è bella
(fischia)
Bene o male, diceva quello,
l’importante è Vivere.
Parlo per me che son votata
ad Asclepio, croce e delizia di una vita al limite, al freddo, alla fame.
Parlo per me come in un
diario, snocciolare i giorni come chicchi. Alla fine il mucchio dice Clov.
Tante volte mi domando se il mio cervello funziona bene poi mi passa e ridivento
intelligente. Ecco: cosa c’è ancora da dire? Cosa trovo ancora da dire?
Parlo per me, per farmi
compagnia, evitare il silenzio come la peste. Parlare a sproposito se
necessario. Dire com’è andata quella volta che stavamo per affogare a Cala
Pisanu in un mare improvvisamente infido. Salvi per miracolo.
Parlo per me che ho fatto
tutti i mestieri. Attrice, teatrante, giornalista, libraia, segretaria e poi…e
poi e poi e poi e poi viva il dolce far nulla, abbrutita fino all’accidia. E
dai e dai la miseria, la malattia, la vita di strada.
Parlo per me perché se ho
paura la notte, basta che pensi ad Asclepio, veda le luci che lo circondano e mi
convinco che nulla di male può esserci in un luogo sacro. Nulla di male. Posso
dormire le mie tre ore tranquilla.
Parlo per me che amo i cani,
sanno cavarsela molto meglio di noi, eppure Charlie, Arturo, Leone, morti male,
morti tragiche.
Parlo per me perché ho il
cuore chiaro e dio lo sa e m’aiuta. Anche se me la sono voluta. Tutti a dirmi
sei debole, senza carattere, tutti a travisare, non capire il mio disagio nei
conflitti, non riuscire a sostenerli. Ma se sei pecora, si dice a Roma, il lupo
te se magna.
Parlo per me perché è inutile
dirlo, chi altri? Non c’è più nessuno. Parlo per me a me. Me la canto e me la
suono, senza scomodare la Storia con la esse maiuscola, chi s’accontenta gode e
mi per causa del mi patron…
Parlo per me che mi mantengo
pulita, quasi una mania, reazione al vivere in giro. C’è una signora che mi
presta il bagno per due euro l’ora, fa anche rima. I giochi di parole che
facevo con mio padre non li dimenticherò mai. Inventavamo canzoncine tipo caro
mozart ti faccio sapere che tutte le notti io faccio le pere e ne faccio di
piccole e grosse, tutte le notti io faccio le loffe oppure margherita fa lo pà
una mosca jè ce va, jè ce va una mosca ardita caccia l’occhio a margherita…
Parlo per me che sto
invecchiando senza crescere, impenitente.
Parlo per me per non tediare
un altro, se poi c’è chi ascolta tanto meglio.
Parlo per me perché non so
dire basta ma ho il cuore chiaro e dio m’aiuta. Aiutati che dio t’aiuta e io
m’aiuto da me. Da sempre. Durante la chemio nascondevo la calvizie con un
turbante. Ne avevo di tutti i colori. Mi dicevo: non frignare e fai qualcosa di
sinistra. Iniziai a frequentare gli ultimi e da allora non ho più smesso, son
diventata dei loro. Peggio, penultima, manco ultima. Odio i furfanti, sto alla
larga dai beoni, vivo appartata. Votata ad Asclepio. Qui all’Isola Tiberina. Le
isole della mia vita.
Parlo per me perché ce l’ho
messa tutta a fallire e non ho fallito.
Parlo per me di continuo, non
scherzo. Parlo per ricordare quando spalle ad Asclepio, guardando Ponte Rotto,
vidi una nicchia e pensai di costruire un ponte e andare ad allattare un figlio
nato dalla testa ma nato morto, per lui un non seno, solo una ferita. Tarpea o
della Scienza andò in scena a Cagliari, dopo essermelo portato dentro per un anno...snaturato,
eppure c’era chi piangeva, chi tornava, chi s’arrabbiava, chi rideva…
Parlo per me nata a metà anni
sessanta, cresciuta a tv dei ragazzi. Alle Montessori fino alla quarta
elementare, poi cambiammo casa e andai alla scuola pubblica. Alle medie ero
esplosa, mi piaceva studiare. D’estate andavo a cavallo, detestavo lavarmi, la
sera troppo stanca al mattino troppo insonnolita. Tutto il giorno in campagna.
Erano bei giorni. Il primo innamoramento. Ero completamente imbambolata i miei
molto preoccupati.
Parlo per me che ho avuto
sempre uomini belli, io, così racchietta.
Parlo per me perché è bene
non abbia fatto figli. “Alle donne? – diceva il mio maestro – bisognerebbe
murargli la figa.” Ciò non impediva che i pargoli andassero a lui.
Parlo per me perché tanto non
gliene frega niente a nessuno, si nasce e si muore soli. E la morte non è soltanto la mia, moriamo
tutti, incessantemente, Bataille…quindi guai a chi frigna!
Parlo per me così mi conosco.
Se non accade posso sempre ricordare. La poltrona di plastica trasparente
ricevuta per il sesto compleanno. Il giorno dopo una appendicectomia non me
l’ha tolta nessuno. I tempi del Segno del comando, noi bambini non potevamo
vederlo, metteva paura.
Parlo per me in un flusso
d’incoscienza, seppure tutto abbia un senso, anche la morte di un passero.
Giocare sulle assonanze,
privilegio qui lungo il fiume. Sto delle ore a pescare, sempre intrattenendomi
fra me e me.
Parlo per scongiurare la
paura, vivere all’erta non è facile. Logora. Ma non è stato sempre così. Ho
avuto case molto belle e la mia sciagura è legata proprio a una casa. Sta in
via Urbana, al rione Monti. Avevo vent’anni e vendetti al primo offerente,
comprai a Cagliari, casa altrettanto bella ma ai confini dell’Impero. Per
amore, solo per amore.
Parlo per me che l’amore m’ha
sempre fregato eppure una vita senza amore non è degna d’essere vissuta. Parlo
per me eh?!
Parlo perché nel frattempo
posso usare le mani, per non dire fate qualcosa.
Parlo perché in quanto a
malattie non mi manca niente, pure un disturbo bipolare certo come è certo che
il sole sorge sempre a est alla faccia degli empiristi inglesi. Lo Stato
Italiano mi riconosce tre piani terapeutici grazie ai quali vivo in salute,
purché stia ai margini. Hanno provato ad allontanarmi da Asclepio ma io l’ho
sempre avuta vinta, io sto qua. A vedere come l’isola di notte si fa rifugio
per i frocetti, coppie di una tenerezza ormai sconosciuta agli eterosessuali,
vittime della lotta fra i sessi, ancora e ancora.
Parlo per non farla finita,
per dire la distanza che mi separa da Asclepio, incolmabile, un fiume da
attraversare a nuoto, avendone il coraggio. Parlo perché ho il cuore chiaro e
Dio m’aiuta. Lui sa quanto ami il prossimo e insieme lo detesti, ecco perché ne
sto lontana, mi fa soffrire.
Parlo per le parole che ho
dentro, ruminate di continuo. A parte il tempo che capita con l’Altro: una
dannata grazia.
Parlo per sentirgli dire: “Ti
amo anch’io”, e potergli dire come Violetta: “E’ tardi”. Allora non avrei
vissuto invano, ma senza cattiveria, sul finire di questa lotta sulla terra.
Tanto che terra è sinonimo di lotta, ahinoi. Vita amara.
Parlo per conciliare parole
come sesso, cibo, vita, morte, con parole come la vergine rossa, alla faccia di
GF, accanto al maschile apparentemente più lontano, Carlo Michaelstedter:
eppure simili, direbbero entrambi.
Parlo e nel frattempo mi
spoglio, l’ambizione di dir facendo, mentre tu ascolti, una messa comunque.
Basta una sedia, diceva il mio primo e unico maestro, ferita aperta nel cuore
del teatro nostrano. Ferita aperta, come Heine in terra tedesca.
Parlo per illudermi di farla
alla morte, per non pensarla, semmai dirla, e poi ridirla, trovarle sempre una
forma.
Parlo ma a volte dimentico,
m’incanto. Allora la notte scrivo, a mano, e il giorno dopo imparo a memoria.
O’ teatro! M’apposto agli angoli della strada e parlo per me. C’ è chi
s’avvicina e lascia qualcosa pensando povera pazza.
Parlo per testimoniare il mio
tempo, perché ogni epoca ha il teatro che si merita. Senza cattiveria, perché
comunque ho il cuore chiaro e Dio m’aiuta.
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