Passa ai contenuti principali

Malato di brutto

Il mondo è malato, malato di brutto, e, purtroppo, non è un modo di dire, invaso com'è da virus e locuste. 
Malato di brutto non ex abrupto, ché d'improvviso non s'è ammalato, il mondo, in pericolo in verità dall'opponibile pollice del sapiens, a ben vedere, oggigiorno, insapiens.
Malato di brutto nella doppia accezione di malato grave e pasciuto di bruttezza. A nutrirlo, il povero mondo, ci pensa l'insapiens, tanto insapiens da centrare l'insaporo e mancare l'inodoro.
Puzza l'insapiens, la vita sua è più o meno lenta decomposizione, fisica e, smessa dal canto nostro perniciosa dicotomia, morale.
La morale è che non c'è mai stata morale: l'insapiens non sa cos'è buono e giusto per sé, lasciamo stare per i cari che di caro, lui, l'insapiens, se maschio ha l'ingombro fallico, se femmina, la gravidanza, entrambi la carriera.
E li vedi, i purulenti, armeggiare di giorno nelle giostre degli uffici, autoridottisi, un tempo cavalieri, a bestie da soma, muli a traghettar consenso per qualche minchione di turno, il padrone; di notte nelle giostre del divertimento, l'uno e l'altra con il medesimo intento, l'accoppiamento ma sfalzato: lui, sedicente innamorato dell'amore, leggi ampleso, aspirando alla lié dongiovannesca, lei alla prole, povere creature su cui riversare il venir meno, l'inevitabile sfiorire.
E combinano eh! Non che non si combinino, lui e lei, insipienti al punto da concordare una congerie di rimozioni. 
Sebbene così male assortiti, anzi, a motivo di ciò, come i ladri di Pisa - quei due che litigavano di giorno ma la notte rubavano insieme -, s'accordano in una sorta d'associazione a delinquere: si sposano. Ecco la forza del mondo, povera plaga che di cotesta benedizione, l'accordo di un uomo e una donna, avrebbe fatto a meno dai tempi dei tempi!
Ed eccolo, il sale della Terra, plaga piagata da scarti e miasmi del suo sale insapiens, sale che brucia ferite insanabili.
Eccolo, il primate dall'opponibile pollice, oggigiorno dedito a compitare, teso fra pollice e indice, frasi a effetto tipo: dove sei, sto arrivando. 
Sì, arrivare, ma dove?
A essere prolunga della tecnica, protesi di mezzi di comunicazione che propagandano mezzi di comunicazione.
O fine, fine!
Finalmente assisto al tuo svelamento, testimonio l'ultima coincidenza, subdorata profezia di tutta una vita: coincidi al fine, o fine, con la fine.
Fine di una mascherata durata fin troppo, aver presupposto una morale che non c'è, alla fine. 
O fine, m'appari per quello che non sei, ché se fossi, avrebbe ben donde il mio vivere, il timore, il fraintendimento! M'appari quale unica sostanziale rimozione, genitrice del procrastinare per far spazio ai mezzi di rimozione, quei mezzi di comunicazione che t'inverano da par loro, per quello che non sei, null'altro che metafora che trasporta se stessa. 
Mezzo di mezzo, togliti di mezzo!
O fine, alla fine, nell'apparenza tua, motrice della rimozione identica a se stessa, non appare che la degenerazione: né maschile né femminile l'identità tua, bensì algida neutralità di una sentenza più dura della fine insperata: o fine tu sei la fine.
Ecco la fine del mio patir?
Macché, magari!
La posa di allontanar da sé l'amaro calice è, appunto, solo posa, ché a un dato punto solo il calice resta, e il suo amaro, il fiele è per chi sa voluttà. 
Beata ignoranza, se non fosse che d'ignoranza, ossia di bruttezza, è malato il mondo, malato l'insapiens. 
Avvedersene, basta a farsi sani? No, ed è il diniego più lacerante che posso. A lungo, fatta fuori la miopia dell'in, la mondanità, il sapiens ha fatto resistenza, costruito un baluardo contro gli attacchi fenomenali, dietro le belle bandiere, s'è trincerato, oilui, invano.
Indarno, s'è difeso dall'equivoca mondanità, indarno la rifugge terrorizzato dalla saggezza d'antan dell'adagio: bisogna vivere secondo la propria epoca.
E che, si dice il sapiens - e il sapiens parla solo con se stesso avendo tolto la parola agli insapiens da tanto -, e che, dovrei farmi prolunga o peggio protesi? Dovrei che?!
Per fare cosa, mettersi in affari, avere a che fare con chi si fa lobotomizzare dalla pervasività dei mezzi di rimozione?
Avere una buona memoria è una iattura; a un certo punto si pensa che la memoria collettiva sia una vera dittatura.
Ricordare è doloroso quando non si riesce a dimenticare il male fatto o subito, quando ci si ritrova feriti e insanguinati. Feriti i sapiens, feriti a morte. Malati di brutto gli insapiens. 
I ventenni, questi sconosciuti, speriamo bene. I trentenni, già marci.
I quarantenni, affaticati. I cinquantenni hanno mancato tutto o tutto avuto. Tra i sessantenni c'è chi volentieri se ne andrebbe con una iniezione letale, altri loro coetanei, stanno tutti in quel labor omnia vincit, non mollano il lavoro, offrendo il destro al padrone, per confondere la lotta di classe con un'atridica lotta generzionale e solo a scriverlo lo stomaco si rivolta. I settantenni preparano la valigia, anche per l'ultimo viaggio. Gli ottantenni sono i più stupiti, meravigliati di esserci ancora. I novantenni aiutano con l'ironia.
Malati gravi, gli insapiens. D'altronde, cosa vuoi, quattro ore di fila per vedere una mostra: vedere? No, nella caverna non c'è bellezza, lì si può ingurgitare il brutto senza il minimo senso di colpa. Guardano senza vedere, vanno per stare in fila e poi raccontarlo, ma l'Arte, ringraziando il Cielo, si difende, resta nascosta, come il dio segreto: esposta a tutti, evidente a pochi. 
C'è da bruciare il dolore della morale che manca, manca da sempre, tutto è successo senza di lei, anche se in suo nome tutto è accaduto!
Appiccare fuoco al male usando per miccia il dolore di non sentirsi degni di vivere in un mondo malato, tutto compra e disprezza, solo un sapiens lo può.
Ailui dolorante, esule sempre, in fuga dal brutto, dalla malattia malvagia dell'avere, la malattia dei dimentichi dell'essere: raccontare, raccontare, raccontare...
Una vita di racconti, miti, senza sacro, non è degna d'essere vissuta.
Tutto è mito, perfino a messa si va per averlo fatto: abolito il rito, soffocato dalla sua ipertrofizzazione, rimosso dalla tecnica, dal procrastinare a vuoto, la metafora che ritrasporta se stessa. Sì, il sacro, in panne, è stato portato via dai mezzi di rimozione. 
Solo un sapiens lo può. 
Respirare, nutrirsi, muoversi e riprodursi, questi, stando a Jean Marie Guyau, i fondamentali della vita, da garantire a tutti. Aria, cibo, movimento e figli, quanto basta. Quasi chef di una piccola ma prelibata cucina, ormai due secoli fa, Guyau sfamava la fame di un fine nobile, da sottrarre alla coincidenza con la fine: farne null'altro che il principio. L'inizio di un'altra umanità, se non felice meno infelice dell'odierna. Gli ingredienti sono garantiti dai tempi antichi, il bello e buono: l'ideale greco mutato d'accento, bello è buono. Il bello attira nella misura in cui incita a voler vivere, impossibile camuffarsi. Di cosa seria parla Guyau quando dice arte: non è un gioco da dilettanti né mera contemplazione; la sua arte parla di armonia, melange di sensazione pensiero sentimento. L'arte si fa in quanto risponde a una vocazione dei sensi a recarci emozioni estetiche, bello è bene, e il bene si propaga, come sasso nello stagno. Fidarsi? Che avremmo da perdere se non le catene?
L'arte viva, nei miei deliri da santa sognatrice, è apripista di un'altra umanità, umanità sicura della bellezza come un diritto non da rivendicare, ma da esigere. Chissà se nel voler vivere l'arte parla altro, parla d'altro, chissà se nell'arte di là da venire l'arte molla il mito ritrito e parla d'altro, chissà! Di certo, per essesere innalzati bisogna elevarsi. 


Commenti

Post popolari in questo blog

Anna e Rino

Teatro è il destino dei disperati, in alto e in basso. In alto, intendono e riferiscono il tragico esistente; in basso,una vita da guitti. Rino Sudano diceva, sono un depresso vitale. Aveva un rammarico: non aver il coraggio neanche di pensare di poter far a meno di Anna D’Offizi, sua compagna per anni e negli ultimi anche moglie, per la pensione,dicevano. Fosse stato in grado di restar solo, diceva lui, sarebbe stato un guerriero, refrain per gli intimi. Lo sono stata, intima. Per me è stato un padre più che un maestro, con lui ho scoperto il cibo, quello che finisce in pancia, e quello che nutre la mente, mélange di cuore e cervello. Rino che Aggeo Savioli definì più beckettiano di Beckett quando era firma ascoltata de l’Unità. Ai tempi di BrunoGrieco responsabile della cultura a Botteghe Oscure, PCI. Anna mi portava sempre con sé quando andava da lui, raccontava della ricerca, di quel che stavamo facendo, prove aperte al pubblico, andate in scena. Finale di Partita, cavallo di