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Anna e Rino

Teatro è il destino dei disperati, in alto e in basso. In alto, intendono e riferiscono il tragico esistente; in basso,una vita da guitti.
Rino Sudano diceva, sono un depresso vitale. Aveva un rammarico: non aver il coraggio neanche di pensare di poter far a meno di Anna D’Offizi, sua compagna per anni e negli ultimi anche moglie, per la pensione,dicevano.
Fosse stato in grado di restar solo, diceva lui, sarebbe stato un guerriero, refrain per gli intimi.
Lo sono stata, intima. Per me è stato un padre più che un maestro, con lui ho scoperto il cibo, quello che finisce in pancia, e quello che nutre la mente, mélange di cuore e cervello.
Rino che Aggeo Savioli definì più beckettiano di Beckett quando era firma ascoltata de l’Unità. Ai tempi di BrunoGrieco responsabile della cultura a Botteghe Oscure, PCI.
Anna mi portava sempre con sé quando andava da lui, raccontava della ricerca, di quel che stavamo facendo, prove aperte al pubblico, andate in scena. Finale di Partita, cavallo di battaglia. Insieme a Giorni felici. Lui e lei.
M’aggiunsi alla quasi fine, anni Ottanta. Ne erano passati tanti nelle due camere e cucina di Via dei Quattro Cantoni 6, al rione Monti a Roma, sede dell’omonima cooperativa. E dopo me, fuoriuscita nell’anno della caduta del muro di Berlino, ce ne saranno ancora.
Sì, un gruppo cooperativa: a vent’anni guadagnavo tanto da vivere facendo l’attrice, lavorando con lo stesso autore per anni, oggi cosa impossibile per molti.
Se non un’opera letteraria, posso lasciare una testimonianza.
Fu Anna che convinse Rino a dire addio al teatro ufficiale e dedicarsi al proprio teatro costituendo un gruppo.
Era il 1974, quanto a me sarei arrivata molti anni dopo, ormai più di trent’anni fa.
Rino era recalcitrante, era attore del sistema, suo amico era Corrado Pani, con il quale giocava a poker in tournee.
Giocava Rino, a poker, ai mimi era fortissimo, a freccette, a biliardo, a biliardino, al gioco del vocabolario, a dadi, sempre con una giovialità fuori dal comune.
Ecco, era più che un compagno un compagnone, depresso vitale; tutte le profondità conosceva, eppure sapeva giocare e al teatro s’avvicinava come a un gioco serio a dir poco.
Tutte le asperità e difficoltà, che circondano Rino Sudano, sono una tela di ragno che imbarazza lo stomaco, nelsenso che a leggere, non tanto i testi di Rino, ma i testi che a lui guardano, non viene nessun desiderio di saperne di più. Se Savioli ne fece il più beckettiano, la critica stenta nel timore di tradire un rigore pagato caro. Ma anchegli attori da un po’ hanno voce.
Erano le prove di Don Giovanni, portato in scena prima a Roma, poi a Cagliari con Anna e me, lei Don Giovanni,io Sganarello, a un tratto, eravamo sul fondo del palcoscenico, ognuna ai bordi di un alone di luce ghiaccia, adAnna – doveva essere un binario di due monologhi, due che mentre dicono, dicono a se stessi – feci eco io:
“Parola mia potrei rispondere, non so cosa rispondere…” Molière. A un tratto Rino cacciò un urlo: “Possibileche non vi accorgiate che qui come lì dove siete, non c’è nulla? Nulla! C’è da iniziare da subito in un’altra dimensione. Qui non c’è nulla! Altrove, chissà.” Riprendemmo dopo un lungo silenzio, non interruppe mai. Era andata molto meglio. T’interrompeva solo quando non c’eri, altrimenti attendeva la fine del frammento e ti diceva a che percentuale fossi secondo le tue possibilità.
Prima d’iniziare le prove, parlava a lungo, sviscerava tutto il possibile in senso alto non psicologico: parlava d’altro, sempre. A meno che non si trattasse di una partitura, con una musica prestabilita, non imboccava mai la battuta, attendeva che il prima, quel parlare d’altro, agisse sull’attore. Silenzio, parola. Non c’erano appigli, fra questi estremi era tesa la corda dei funamboli. Nessuna preparazione, né fisica né psicologica, a freddo, l’attore doveva essere sempre pronto. A intonare, avendo un’intenzione, fra parola e silenzio, guai a colorire, il teatro di Rino era in bianco e nero. Nei momenti più oscuri, il negativo di una fotografia in bianco e nero.
Anna gli diceva, a volte urlava: “Tu nel tuo abisso non mi ci tiri!” L’abisso era dato in primis da “loro” cioè il resto del mondo, ragion della critica feroce espressa dal teatro di Rino. Critica di una borghesia che da borghese sapeva assai bene. Le convenienze al posto dell’amicizia o in nome di un fare comune.
“Loro” lo avevano cancellato, lo sapeva. Essere cancellati dal mondo mentre si è in vita, è doloroso come l’amore non corrisposto.
“Ulcera, ti chiamavano, te lo sei scordato, Rino?”: Anna, sapeva difendersi quando lui, anziché depresso vitale era depresso e basta, la incalzava.
“Rino, Rino, hai un nome da cerusico!” era la frase libera-tutti: a quel punto scattava il “Di qualità, di qualità” che portava riso amaro.
Anna, profumo al melograno.
Anna, palindroma del mio cuore: da te più che da ogni altra ho saputo cos’era amare un uomo, da te cucinare, da te mettere la punta della lingua contro il palato quando in scena viene da starnutire, da te come truccarsi (poco), da te la cura e l’amore che la ispira, da te la differenza di essere attrice.
Anna, cresciuta nelle ceste del Teatro dell’Opera, povera e ricca di talento, come il fratello Sergio direttore della fotografia, suoi tanti film di Alberto Sordi. Anna lo incontrò, e rideva mentre me lo raccontava con irresistibile e contagiosa risata. Albertone le avrebbe detto: “Tu che fai? Teatro?!?” E le avrebbe voltato le spalle ridendo, come a dire, ma fammi il piacere! E rideva Anna, ma a volte in scena, lei Clov, lui Hamm – il più vero Finale di Partita mai fatto in Italia – la vedevi che ci metteva tutta la sua pazienza sempre al limite nei confronti di un compagno un po’ padre padrone.
Come quando Carlo Cecchi invitò Anna a far parte di uno spettacolo, Rino le suggerì: “Digli che non ci vai perché in cambio ti ho promesso la pelliccia!”
Così andò? Eh, Anna? I ricordi di chi ricordava, difficile mantenerli vivi, eppure qualche traccia hanno lasciato.
Maleodorante se ricordo il ricordo di entrambi sul loro incontro, al Cut. Lui, l’aveva adocchiata da un po’, lei pure, lui le si avvicinò e mollò un peto roboante: lei scoppiò a ridere, ridere, ridere e non la smetteva più. Ecco, quell’attimo tra il fetore e il fatale, me lo sono immaginato tante volte. Galeotto il peto, sono rimasti insieme fino alla morte di lei, 1994.
Rino era nato il diciannove maggio a Primavera, non sapeva che cos’era la follia ma ne era attratto: il primo nastro che mi fece ascoltare, l’urlo artaudiano; il secondo ascolto, Licia Albanese, Violetta con un filo di voce ma un cuore immenso, diceva. Mi trasfuse l’amore per l’opera lirica, Verdi su tutti, Mozart solo poi. Da me nutrivo passione per Bellini, amavo Puccini, lui no. Di sangue parmense, adorava la Tebaldi detestava la Callas: senti, senti, è finta; ascolta questo gorgheggio, questa maschera, è finta! La Callas a me emozionava allora come ora. E così la Tebaldi, ma nella greca divina c’era la storia di uno studio matto e disperato. Memorabile la sua interpretazione insieme a Giuseppe Di Stefano dei Puritani di Vincenzo Bellini (anche Rino era nato a Catania,
nel 1940).
Il padre era stato prigioniero in Africa durante la guerra, al ritorno, si ritrovò a vivere con moglie e tre cognate.
Sì, Rino era contornato da donne da bambino, la madre voleva che eccellesse sempre, lui non riusciva e si sentiva mortificato.
Vacuum paterno e inadeguatezza di fronte alla madre, ma il padre, zitto zitto, conservava tutti i ritagli di recensioni degli spettacoli del figlio.
Figlio che non smise mai di essere tale. Non ebbe mai figli, il desiderio sì: quando il corpo di Anna stava per oltrepassare il limite per averne uno, ci provarono senza riuscire. No, non fu padre a me, ma per un tratto di vita s’è comportato da padre. Alla fine della sua vita, quando anch’io non me la passavo bene, non volle né rispondermi né vedermi.
C’era stato un precedente ormai passato alla storia come la sera dei Festen. Brindisi devastanti.
Di fatto, prima e dopo la sua morte, Rino mi odiava come sapeva odiare lui, a caldo e freddo.
Lui che alla domanda, sul traghetto da Civitavecchia a Cagliari: ma tu sei Rino Sudano? E rispondendo: “Sì” a un’ammiratrice, acquistava venti centimetri d’altezza. Altro refrain: La mancanza di consenso fa perdere il senso.
A quel poco di consenso che ottenne, Rino s’apriva come rosa di Gerico.
Ridendo – strano no? Una storia piena di risate –, ricordava di quando al liceo era amico di Freddy dal ciuffo tipico degli anni Cinquanta, e cercava invano di stornare l’attenzione da Elvis a Leopardi, un fallito in partenza.
Parafrasando il fallire meglio beckettiano, Rino era per un altro refrain: mettere in conto il fallimento.
Ci sono incontri e incontri, alcuni cambiano la vita.
Restavamo ore e ore a parlare, o meglio, lui parlava, a me il compito di ascoltare. Eravamo generosi entrambi.
Lui, con il disegno nel cranio calvo di travaso delle idee in me, che ben lieta assentivo. Generoso al punto che ti esortava a fare, a pensare per la scena, ad andare in scena con tuoi lavori, a dire la tua, era autentico in questo.
Non limpido, ma autentico sì.
Ognuno diventa quel che è, diceva. Lapidario, e tutti a farsi l’esame di coscienza.
Le ultime parole che mi disse, sulla porta di casa mentre lasciava la sera dei Festen, furono: e tu, cosa scura, appartieni a me. Sapeva. Il resto, quello che disse e pensò dopo, non è nel ricordo.
Anna e Rino ricordavano un tempo che già nel 1984 non c’era più. Da allora e fino al 1989, m’infusero ricordi che non avevo, un mondo al trapassato, prima e dopo il boom.
Anni Sessanta, Settanta: la verità è che il ’68 era già la spettacolarizzazione della rivoluzione, ne pensava tutto il male possibile, Rino.
Anna taceva, a volte erano liti furibonde, lei, tessera del Pci, difendeva l’indifendibile, ne era consapevole, ma era anche un modo per sottrarsi all’egemonia del compagno. La lotta tra i sessi, come la lotta di classe, era necessaria.
Come toccarsi il didietro prima di entrare in scena, a proposito di flessioni apotropaiche.
“In teatro non si fischia…”: redarguiva Anna, come a tavola e a letto. Però si poteva cantare, e cantai. La serenata del Don Giovanni, da Sganarello. Un canto che si allontanava spariva e poi tornava: stasera c’eri, disse una sera, quando nella platea del Teatro Abaco di Mario Ricci, c’erano solo Carlo Quartucci e Carla Tatò. Capitava, andare in scena per due spettatori, eccezionali, ma sempre due.
Capitava a Roma, oltre l’Abaco del Lungotevere Mellini, c’era il Politecnico, tre sale in ordine di grandezza dalla A alla C: piccola sala C del Politecnico, dove debuttai in Tre Sorelle: la scena era preziosa, un ammasso di velluto rosso, poltroncine di teatro riusate come scultura. Fra Duchamp e Dubuffet. L’avevamo costruita insieme con
Rino, “secondo le leggi della fisica”, con del filo di nylon.
Con Anna, si batteva a macchina il volantino che dettava Rino stando seduto in poltrona. Il passo successivo era
andare in copisteria a Via Torino, per le fotocopie anche loro rigorosamente in bianco e nero. Si spedivano inviti,
all’epoca. C’era l’imbustare, l’affrancare, lo spedire. Era l’unico modo allora, l’aspettativa che quell’invito finisse
nella saccoccia giusta c’era. Eravamo meno cinici di oggi. Comunque sia, Rino era difficile, il bello dicono lo sia.
Difficile che uno spettatore che lo seguisse non diventasse anche amico. E gli amici si contavano sulla punta delle
dita. La critica lo seguiva, anche Nico Garrone.
A Cagliari tutta altr’aria, niente forni, in gergo teatro vuoto. Nell’isola dei sardi Rino era conosciuto e stimato grazie al Laboratorio di Gigi Livio all’ateneo cagliaritano. Tu sei Rino Sudano? Sì, e faceva il pavone con tanto di ruota.
Non c’erano personaggi nel teatro di Rino, bastavano le persone, già maschera. Così, abolita la rappresentazione, basta la presentazione. Non credeva nell’immediatezza, siamo tutti mediati; non a caso detestava la Magnani e la sua presunta genuinità.
Amava John Cassavetes e Gena Rowlands, coppia che dai ricavi di Hollywood traeva il tanto per fare cinema indipendente. Coppia di dilettanti nel senso che si dilettavano facendo cinema. Amava Marlon Brando e Gian Maria Volontè.
Anna e Rino leggevano e credevano in Pier Paolo Pasolini, un suo testo, Calderon, fu l’ultima prova che sostenni con il Gruppo, che a quei tempi si era arricchito del contributo di tanti altri, fra attori e attrici. Fu la prova più difficile. Rino, all’improvviso, mi rendeva impossibile entrare in parte – nella vita preferisco parti a partiti -, m’interrompeva subito, non mi faceva andare avanti, giorni e giorni, era diventato un incubo provare.
“Dove sono?” le parole che dovevo dire e non riuscivo. Accumulai impotenza che in prova un giorno esplose in un grido prolungato nella scena della preghiera e rimase nello spettacolo, chiedevo aiuto ma il “contro” di Rino era già stato sentenziato.
Da lì, avrei dovuto capire, ma ero in tutte altre faccende affaccendata, l’organizzazione del teatro Palazzo d’Inverno in Via Principe Amedeo, trenta posti all’inizio, scovati e restaurati da Bruno Meloni, ingegnere dedito al teatro allora. Al centro della città cagliaritana, uno spazio che nasceva libero da logiche di mercato: era aperto quando si aveva qualcosa da dire, il resto del tempo, chiuso.
New York vale Roma, Cagliari: così parlava Rino alla conferenza stampa di presentazione del teatro alla città, era il 1987, allora capivo, oggi vivo la globalizzazione feroce, quella che allora era una profezia annunciata. Alla caduta del Muro, ci dicemmo mesti: si apre un nuovo mercato, ora nulla osta all’irrefrenabile.
L’esser da presso a Guy Debord portava Rino a un pessimismo estremo, ma veritiero.
Come l’esser prossimo a Bataille, altro cattolico problematico. Marx lo rallegrava, nutriva il suo ottimismo anche se in sé, in fondo, sapeva benissimo che il marxismo aveva sopravvalutato le virtù dell’essere umano. Di Freud ne faceva un organisateur. Adorno era pane, Kierkegaard vino. A distanza di anni, rileggo le sue letture, tanto amate da decidere di portarle in scena, non come pretesti, ma parti di un unico discorso. Rino diceva, sono un orecchiante, e lo era a letture plurime: mi stupì come dalla sua gabbia dorata a Via Quattro Cantoni, unico elettrodomestico finestra sul mondo la tv – a parte quella spalancata in soggiorno su Santa Maria Maggiore -, allora Internet era di là da venire, mi spiazzò cantando con me una canzone dei Matia Bazar, Vacanze romane. Tu, con il cuore nel fango.
Era il 1983, avevo diciannove anni, la stessa età che aveva Rino quando s’affacciò al Cut. 1960. Là incontrò Anna ma anche Leo De Berardinis e Maria Grazia Grassini, la coppia più bella del giovane teatro d’allora. E tanti altri, tutti quelli che poi sarebbero diventati “Loro”.
“Loro chi? Rino!?! Basta con questo “Loro”!!!”: Anna era esasperata a volte, star vicino a lui non era uno scherzo.
Eppure di scherzi se ne facevano tanti. Un classico, Rino che le chiede: “Anna, lo sai?” – e lei ci cascava ogni volta e chiedeva di rimando: “Che?”, e lui gongolante: “Che l’autunno fa cadere tutte le foglie che il vento raccoglie portandole a te!”. “Ma vattene va!” era il commento di lei stizzita per finta. Come teatrino nel teatro era la solita scena di Rino che libro alla mano la seguiva passo passo e le chiedeva se le poteva leggere qualcosa, e lei, come Clov, rispondeva: No, non voglio sentire (la tua storia)!
Quando Beckett entrava in prova, impregnava il lessico famigliare in occasioni tipo: Hai preso tutto? E l’altro rispondeva intonando, “tutto fatto tutto detto tutto pronto per la notte”. Oppure: È pronto? “Non c’è più pappa, non avrai mai più della pappa!”. Che ora è? “Non è l’ora della mia pipì?”.
Anna aveva anche lei i suoi refrain, amabili sferzate viravano allo sfottò, se attaccavi con “Quand’ero piccolo”, seguiva un divertito: “Eri ‘na palla ‘e mmierda!”. Se sospiravi era solita chiederti con voce compassionevole: “Soffri, nì?!”, era un classico ma all’improvviso ci cascavi: sì, soffro. “Va a sospirà in ghetto!” t’apostrofava ridanciana. Qui la presa per i fondelli non recava traccia della cattiveria dovuta alle tante delusioni che invece esplodeva quando Rino, dopo una notte a parlare con gli amici, si svegliava alle tre del pomeriggio inorridito dalla luce. “Ecco – esordiva lei – la sera leoni, la mattina coijoni!”
Mentre Rino dormiva, Anna lavorava, mandava avanti la baracca, fra ministero, commercialista, siae, enpals, inps: nelle ore d’ufficio la Quattro Cantoni era lei. Senza lei lui era perso e quando la perse, perse la trebisonda i primi tempi.
Anna e Rino allora avevano raggiunto un equilibrio invidiabile: quando lei si svegliava alle quattro del mattino, lui andava a dormire per ridestarsi nel primo pomeriggio. Gioco forza lei alle nove di sera s’abbioccava sul divano, le
piaceva dormire profondo mentre Rino parlava con me o con chiunque prestasse ascolto. Rino che poi avrebbe
fatto le quattro di mattina fra letture e vhs porno. Anna era più grande di otto anni, e quando non si era piaciuta più, aveva interrotto qualsiasi pratica sessuale. Rino no. Lui andava, Anna consenziente, con prostitute d’alto bordo. Una volta al mese, allora si lavava e metteva in tiro – non amava l’acqua di solito -, Anna gli sceglieva i vestiti puliti. Coppia indissolubile fino a quel punto.
Coppia che subì non pochi scossoni, invaghimenti di Rino per attrici dentro e fuori il Gruppo.
Volarono sganassoni una volta, se le erano date di santa ragione. Anna provocava fino all’esasperazione, poi, non so se calcolasse che venendo alle mani avrebbe avuto la peggio con Rino, passava al tiro degli oggetti. E lui reagiva e lei reagiva…
Gruppo che in una fase, la mia, ebbe sostanza e forma di famiglia, gioco forza, la nostra età anagrafica aveva le fisique du role. Poteva andare altrimenti, ma ci cascammo, nei ruoli, forse con una certa voluttà, consapevoli di cascarci. E furono gli anni, udite udite, in cui risi di più. Rino e Anna mi hanno rimessa al mondo, nata due volte, e Giuseppe Pontiggia è stata un’ottima trasfusione.
Come quella di Carlo Michelstaedter e di Simon Weil. C’è voluto un po’ perché i semi spuntassero, germinassero.
Sì, tanto tempo.
Rino è la persona che mi ha fatto ridere di più in tutta la vita, finora. Gli piaceva farmi ridere, e lo trovavo esilarante, buffo, impacciato, incapace di una qualsiasi manualità, in una parola, ridicolo. E ridevo, ridevo a garganella quella notte a Santa Lurìa, la sera del 6 maggio 1985, lo ricordo con precisione, il mio ventunesimo compleanno, quando per avaria alla mia miniminor, ci avventurammo a piedi lungo la litoranea verso casa. Lui e la torta della festa di genetliaco, mi camminavano davanti, a un tratto non li vidi più, scomparsi in una buca ai bordi della strada: “Rino! Ti sei fatto male?!”, riemergendo in falsetto rispondeva “Non è successo niente, guarda: la torta è salva!”. Ma era caduto, rovinosamente, si era scomposto e le mie risa, altrettanto scomposte durarono a lungo.
Come a lungo durava il rancore verso “Loro”. Ci sono finita anch’io. Destino che mi trova in compagnia di tanti.
Anna su certe cose era anche più ortodossa. Sull’amicizia in senso tutto dare, niente chiedere. Quando, giovane moglie, la mia attenzione era anche su altri, qualcosa s’incrinò. Una crepa che di lì a breve avrebbe portato alla rottura ad urla. “Ora dimmi, dov’è la tua etica, Rino?” L’etica a quel punto s’era ridotta a do ut do. Valore di scambio, tracollato.
Gruppo che sarebbe bello avesse una memoria collettiva. Invece la storia la scrivono in pochi. Ammesso che in una storia del fallire ci sia una storia. Nell’esilio da Rino, nel fallire, c’è tutta la mia gioia.
“Nel bel Robin…”: Ofelia, alla prima prova in casa, ai Quattro Cantoni. In piedi sul tavolo, subito esserci con musica mentre dici. La musica erano i Kindertotenlieder di Mahler: l’Amleto andò in scena al Teatro Abaco, spazio scenico diviso in tre corridoi di teli neri, un televisore in proscenio. Rino diceva e Amleto e il Re, Anna la Regina, a me la parte di Ofelia, al tecnico luci Carlo Meloni, Laerte nel finale.
La scena, nel mezzo dello spettacolo, si disfaceva, via i teli, rimaneva la gabbia di cantinelle, si poteva fumare e bere. S’accendeva il monitor della tv, compariva il faccione di Rino cui un contagocce iniettava lacrime mentre diceva il dite la battuta, “così come l’ho scritta io”. Una pausa contemplata; poi, la ripresa e la fine, Rino seduto in proscenio, si spegneva inforcando gli occhiali da Hamm.
Fallirò meglio scrivendo pagine scritte con il cuore in pace, cuore tutt’al più fibrillante dall’emozione che ricordare è. In primis, una menzogna impolverata di verità.
Polvere, le gambe di Clov, le gambe stanche di Anna.
Una volta lo sfidò, suo marito.
Lo minacciò di firmare lei la regia di uno spettacolo che lui complicava oltremodo, lui ebbe paura, non di lei, d’altro, la denigrò, si umiliò, fecero pace. Era il Pound, andato in scena al Crogiuolo e mai più. Metà anni Ottanta. Enrico Berlinguer era morto, ai funerali una folla immensa. Roma rossa di bandiere.
Roma, Rino non vedeva più quanto fosse bella: “Cos’è tutta questa bellezza?!”. E usava zeta sbagliate apposta.
Come “pisicologia” per psicologia. La detestava con tutta la categoria. “Vai in psicoterapia? E che ce vai affà? Qualsiasi cosa tu dica, lo psicoterapeuta tende a dirti che è normale, è tutto normale.”
Tra le parole, aveva tante idiosincrasie; detestava gli -ismi, tutti. Di fuori e di dentro.
Tranchant quanto Anna affabile, Rino esprimeva spinta da autore in assoluta autonomia, anche nel gettare via qualsiasi cosa, non sopportava né cantine (sic!) né soffitte ingombre. Via le scenografie, via i riflettori, via le luci e attrezzeria varia, se Anna non lo avesse fermato avrebbe buttato via ogni cosa.
Del teatro amava tutto, prove e repliche (meno). Anna in positivo, lui in negativo. Tanto nero che una volta, in scena nel mezzo di un monologo di lei che si accalorava, s’intromise con un: “Non darci così dentro!”. Anna lo raccontava come la madre in segreto orgogliosa del figliolo che l’ha fatta grossa davanti a tutti.
Rino minimizzava ingigantendo, il rigore voleva che l’attore rinunciasse al suo talento. Non mostrarlo se non nella sparizione, ancora una volta, l’immagine del negativo. Nominava Blanchot, amava Roth, Philip.
E andando avanti viene incontro il divario fra ciò che Rino diceva e amava. Rino amava il teatro, refrain: “Nella Russia sovietica, farei l’Amleto con la gorgiera”, a dire il massimo della sua dissidenza in Italia. Insofferenza da nemo profeta in patria in autoesilio, simili alla coppia Daniele Huillet e Jean Marie Straub, per un certo periodo si frequentarono.
Rino amava Straub, entrambi la birra. Chissà di cos’avranno parlato…
Rino amava la buona tavola, il cappello del prete al posto del cotechino, i tortelli di zucca, da inforcare come Verdi mentre scriveva la Traviata, pronunciando un “Mors!”.
Scrivo per tutti, chi lo conosce e chi avrebbe voluto e chi manco sa chi sia.
Divario, fra ciò che diceva e ciò che amava. Un Toro ascendente Toro, quasi Scorpione. Sapeva essere velenoso, con i nemici dichiarati non aveva scrupoli. “Loro”, siamo tanti.
Dell’Italia, Rino parlava parlando del costume di Arlecchino: abito di tante pezze quante anime una volta distinte, integre, componevano la Penisola. Patriot(tardi), diceva.
Garibaldi ai suoi occhi, aveva la stessa colpa di Cristoforo Colombo; l’uno aveva unito l’Italia, l’altro scoperto l’America. Faceva suo Tommasi di Lampedusa: tutto cambiare perché niente cambi.
Italia, inventrice di banche e del gioco del calcio con i Medici. All’epoca, bastò un pallone di stracci.
Italia inventrice di fascismo. Mussolini e la diatriba fra emiliani e romagnoli; lui, il duce, era romagnolo, Rino era
emiliano.
Parma la madre, Catania il padre; lui da sempre vissuto a Roma.
L’Italia del craxismo la raccontava riferendo una stizza pervicace colta in un’intervista a Bettino, in un Tg2 della notte che in chiusura sibilava: “Bisogna estirpare i rami secchi di questa cultura di sinistra!”. Si sentiva un ramo secco. O magari solo di sinistra. Sembrava dal racconto, che Bettino ce l’avesse proprio con lui.
Anna cercava di coinvolgerlo nelle sue zingarate nell’ambiente politico; Rino faceva la parte di quello che voleva tornare indietro, al passato. Ritorno al futuro rivivendo il passato, una Storia che se ne fregasse di Yalta e i suoi accordi, un passato in cui la lotta avesse ancora senso. Segno che le armi se non pari, mimavano un equilibrio.
Era la sua Arcadia.
Ma l’America, che aveva incoraggiato agli inizi il nazismo, era stata ben lieta e accorta a garantirsi uno sbocco nel Mediterraneo, dopo lo sbarco sulle coste di Enea. Italia asservita.
Lezioni di Storia, come il film di Straub Huillet, proiettato al Palazzo d’Inverno, tanti film della coppia a Cagliari: c’era anche Guido Aristarco, ospite del Gruppo con un intervento all’Università: si parlò di Lukas, di Benjamin, il solito Adorno. Totò contro Charlot, volarono parole grosse a cena tutti insieme.
Anni in cui il Palazzo d’Inverno era fucina d’arte. Teatro, cinema, mostre; mai rassegne, ché Rino diceva proprie dei “rassegnati”. Lui in quegli anni venne allo scoperto, si espose a modo suo. Anni compresi fra il 1987 e l’89, a Cagliari. Letture importanti – già allora Rino parlava di “lettura” in luogo di spettacolo – Antigone di Sofocle, Il Pellicano di Strindberg, Prometeo, Calderòn di Pasolini pensando a Pressburger.
Una volta per lo sciopero delle Poste, venimmo meno al rito della “comunicazione”: Rino dettò il volantino, ma una volta scritto, c’ingegnammo a invitare in segreteria telefonica più di ottocento persone! La Cagliari attenta, era passata di lì, Via Principe Amedeo, 33.
Con me o contro di me, questa la prima regola di Rino e Anna. Discutibile, ma la loro.
Esprimere un’insofferenza o ardire una critica, era tradire la causa marxista. Non esagero.
Rino esagerava. Una volta, alla resa dei conti con Edoardo Fadini gli spaccò una sedia sul groppone, Rino.
Un aggressivo trattenuto. A parole, trattenuto neanche un po’. Quel che aveva da dirti, almeno finché l’ho frequentato, te lo diceva in faccia. A proposito di risse, ricordava quella con Leo, spettatore maldestro a uno spettacolo del Gruppo, molestia da alcol. L’aveva redarguito e poi cacciato, erano volate parole grosse, qualche sganassone, spintoni. Di Leo, nonostante definisse il suo, teatro etilico, sentiva una grande nostalgia. Di tutti, aveva nostalgia.
Era contento quando dal mondo dei “Loro” arrivava una chiamata.
Con Carlo Quartucci e Carla Tatò, la Quattro Cantoni, gruppo e cooperativa, cane compreso, si spostò ad Erice, una stagione. Mentre Rino, da attore, partecipava alla Pentesilea della Zattera di Babele, Anna con me e Vincenzo D’Antuono, splendido Nagg, si provava altro. Come a Cella, vicino Parma alla Cisa: casa storica di Rino, primi novecento, villino magico con lo scaldabagno a legna. Provavamo in cantina, buona per i prosciutti; provavamo
W.C. da Bataille, scrittura scenica in cui venivano dette anche le poesie batailliane, da un’ombra ricavata da un controluce. La luce, lo spazio scanditi dal tempo del dire, ricordo: “Stella!” Dietro quel richiamare, quasi che la stella si fosse appena allontanata da me, c’erano ore di studio insieme. Rino si occupava della mia educazione: studiavamo il dire sui testi d’Alfieri, la Mirra su tutti. Era generoso, sapeva far imparare. Fra le tante che sapeva, la più importante.
Il resto, poi, una ferita che col tempo non rimarginava, spurgava rancore. Verso tutti e tutto: tornando dal suo giro quotidiano in libreria, ai limiti di una crisi di nervi a freddo: “In libreria? Non c’è più niente! Pubblicano il già pubblicato ennesime volte. Sennò, pornografia, ma non la mia, vera, la loro, da copertina rigida”. Allora per rasserenarlo bastava farlo ridere canticchiandogli: di qualità, di qualità! Mimando il Barbiere e alludendo al suo teatro.
Rino amava i cani, Anna amava Rino, e i cani. Ai miei tempi, avevano Due, meticcia metà boxer metà chissà, prima un boxer vero.
Rino, non l’ho mai visto piangere, mai. Atterrito da un destino crudele ai suoi occhi, sì, ma mai in pianto. Forse se ci fossi stata quando Anna moriva, forse l’avrei visto sciogliersi e magari abbracciandoci ci saremmo perdonati, forse aveva ragione lui, quando diceva che due dolori si curano meglio. Diceva che ai dì della mia ferita precoce, avrei dovuto correre da lui, ferito dalla morte di lei, ci saremmo sanati, diceva. Forse aveva ragione ma così nonfu. E “se” e “ma” non fanno nessuna storia.
La Storia intanto era ferma all’apparenza, ma si stava facendo, come la pipì di Hamm. Sotto sotto, scavava un abisso fra il prima e il dopo, un abisso magari erto il tanto di una crepa, ma bastò al crollo. Il crollo è crollo, poi macerie. E merce.
Rino ebbe modo di celebrare il proprio martirio, ne andava ghiotto di questo karma. Quella sera alla sala C del Politecnico a Roma, ne fu testimone Franco Cordelli che scrisse su Paese Sera; era una replica di Solo da Beckett, ero alle luci, ricordo lucidamente: Rino introdusse il suo martirio, “Eravamo io Leo e Carlo”, e continuò
lanciandosi come corpo morto contro il famigerato Convegno d’Ivrea. Ne pensava e diceva male. Guardava all’istituzionalizzazione di quel che era stato come a un gran tradimento, un po’ concilio per sancire chi c’era e chi rimaneva fuori, e lui, era fuori.
“Tu nel tuo abisso non mi ci tiri!!!” Anna nel tormentone Ivrea faceva la parte dell’avvocato del diavolo, un po’ come Elena versava nel Nepente del suo Paride un po’ d’oppio da quegli anelli con la ribaltina al posto della pietra intera, solo la superficie, sotto, oppio in polvere. Rino, accanendosi contro di lei, sfogava un po’ di quella rabbia feroce che aveva in corpo.
Pietosa Anna, sua, a detta di Rino, la pietà di Desdemona verdiana, pìetas alla latina: e tu m’amavi per le mie sventure, e io t’amavo per la tua pietà. “Ecco, capisci? Quella è la pìetas!”. Era, se voleva, taumaturgico nel senso più nobile, poetico. Dalla parola allusiva, che cura, sana.
“Ecco, capisci?!”: di solito a questa domanda che si aspettava risposta quindi non retorica, da persuaso, il mio capoccione era lì lì per pensare, “tante volte mi domando se il mio cervello funziona bene, poi mi passa e ridivento intelligente”, lessico famigliare, non c’è dubbio.
Come indubbio, il misconoscimento da Ivrea in poi, aveva ragione su un sacco di cose. Sulle persone ci azzeccava, a volte erano abbagli. 
E Anna? Palindroma dimmi, quando per noi si toccò l’irreversibile? A lui non lo chiedo, se ne sta ostinatamente ingrugnito. Ma tu? Pallida Anna, muta? Anche tu. Entrambi muti.
Di Toscanini pensava ogni bene, di Muti no. Arturo che cantava con Licia, sotto Licia a dare aire all’aria: Senti senti, sempre libera. Di Pavarotti diceva che aveva natura inversamente proporzionale all’intelligenza, Pavarotti che altri presero a esempio quando reiterò che la carriera si fa con i no. Stando alla realtà direi di no.
Lavorare con Rino (“Monichè, mettiti in testa che in teatro si suda!”), era avere a che fare con un teatro, l’unico che io sappia, che si dava per fratelli filosofi e poeti.
Teatrante filosofo che nella scelta d’esserlo, era poetico, Rino dal materialismo al materialismo, approdò in un’Isola da Prospero.
Un’etica fallita bene può portare a una vocazione mistica, più stoicamente, all’ontologia. Un’etica genetica, da dna, quindi unica. Finalmente solo, alla fine.
Frattempo è parola importante nel glossario sudaniano: è frazione di secondo e tempo infinito, come al solito, Rino guardava dall’alto, sguardo che spaziava dall’infinitamente piccolo all’infinitamente grande. Frattempo è accorgersi di sparire in scena, un tempo spazio di coscienza. Frattempo è il tempo della vita, dalla culla alla polvere.
Tempo di un battito, “Ha senso anche la morte di un passero”.
Con un baule di ricordi, manco un costume m’è rimasto, un trucco, un libro, niente.
“Ah, un trucco!”: feticista, onanista 30 giorni al mese, uno di goduria, non è vero che Rino è stato un non maestro o un cattivo maestro. Era umano. Aveva coraggio e viltà insieme, un ossimoro. Il coraggio della coerenza, la viltà del o con me o contro. Anna era stanca, già stanca quando la conobbi.
Di lei, odor di melograno, giro di perle, vezzo da Winnie, ancora le tonalità della sua donna di mezza età nelle orecchie del cuore. Che il cuore abbia orecchie? E tu, Willie, come diresti tu?
Giorni felici vivemmo assieme. Anni. C’eravamo tanto amati.

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