KKMOI
In
scena sulla destra un tavolino con una candela simil maddalena de la tour.
Seduta sul lato corto, mano sotto mento,
piano mi giro e appoggio testa su cuscino: dico
Eccellentissimo
Signor Consigliere della Corte di Cassazione!
Scrivo
a Lei poiché Lei da un certo punto di vista mi è il più prossimo, da un
cert'altro punto di vista mi è non più prossimo di altre persone. Quando
riceverà codeste righe io non sarò più. Se qualcuno dovesse domandargliene la
ragione, allora Lei potrà dire un “c'era un volta una principessa che si
chiamava Bella dell'Aurora...”, o qualcos'altro di simile, perché in tal modo
io stesso risponderei caso mai avessi potuto aver la gioia di sopravvivermi. Se
qualcuno dovesse domandargliene l'occasione, potrà dire che fu in occasione di
quel grande incendio. Se qualcuno dovesse domandargliene l'epoca, potrà dire
che fu in quel mese per me così strano che è luglio. Se qualcuno dovesse doma
ndarle alcuna di questa cose, allora non dovrà rispondere nulla. Io non
considero un suicidio un qualcosa degno di lode. Non è per vanità che mi sono
deciso. All'incontro io credo nell'esattezza della massima che nessun essere
umano può sopportare di vedere l'infinito. Questo mi si è presentato dinanzi
una volta in senso intellettuale, e l'espressione di tale suo presentarsi è
l'ignoranza. L'ignoranza è infatti l'espressione negativa del sapere infinito.
Un suicidio è l'espressione negativa della libertà infinita. Si tratta di una
forma della libertà infinita, ma la forma negativa. Fortunato colui che troverà
la positiva.
Con
il più rispettoso ossequio
il
suo devoto
Alzo
la testa dal cuscino. Afferro coltellaccio, lo faccio brillare alla luce della
candela, lo mostro nascondendolo. Mi alzo. Mi giro, m'avvio ma subito mi rigiro
e dico:
E'
provato che l'omicidio si è svolto nel modo seguente:
La
luce traspare dietro porta sulla destra, m'avvio richiamata da lei, arrivo, la
apro e proietto ombra sul muro, avvolta da luce e col coltellaccio dico:
L'assassino,
Schmar, in quella notte di luna s'è appostato verso le nove di sera all'angolo
della strada in cui la vittima, Wese; a bitava e in cui avrebbe dovuto per
forza svoltare uscendo dal vicolo in cui era situato il suo ufficio.
Una
gelida aria notturna che faceva rabbrividire chiunque.
Schmar
tuttavia aveva indosso soltanto un leggero abito turchino; e per di più teneva
la giacca sbottonata. Non avvertiva il freddo, anche perché si muoveva in
continuazione.
Teneva
saldamente in pugno, completamente scoperta, l'arma del delitto, a metà fra la
baionetta e il coltello da cucina.
Osservò
il coltello contro il chiarore lunare; la lama mandò dei bagliori; ma non era
abbastanza per Schmar; la brandì contro le pietre del selciato fino a farne
sprigionare delle scintille; forse se ne pentì; tant'è che per rimediare al
danno la strofinò come un arco di violino contro la suola di uno stivale
mentre, reggendosi su un piede, chinato in avanti, prestava orecchio sia al
fruscio del coltello contro la suola sia alla strada cui era legato il suo
destino.
Per
quale motivo il privato cittadino Pallas che, lì accanto, ha visto tutto dalla
sua finestra del secondo piano, ha fatto
finta di nulla difronte a tutto ciò? Và a capire il fondo della natura umana! Con il colletto rialzato e la veste da camera
stretta intorno al suo corpo imponente, lui guardava in giù e scuoteva la
testa.
E
cinque case più avanti, sul lato opposto, la signora Wese, con la pelliccia di
volpe infilata sopra la camicia da notte, se ne stava affacciata alla finestra
in attesa del marito che stasera tardava più del solito.
Finalmente
ecco squillare il campanello dell'ufficio di Wese, uno squillo troppo acuto per
un campanello, tanto che si spande per la città, fin su verso il cielo; e Wese,
da quell'industrioso lavoratore notturno che è, ancora invisibile in quella
strada, annunciato soltanto dal trillo del campanello, esce di casa laggiù, in
basso; e subito il selciato scandisce i suoi passi tranquilli.
Pallas
si sporge ancora più avanti; non deve perdersi nulla, lui. La signora Wese,
rincuorata dal campanello, chiude la finestra che cigola tutta. Frattanto
Schmar si inginocchia; siccome in quel momento non ha altre parti scoperte,
affonda il viso e le mani contro il selciato; là dove tutto è gelo, Schmar va
in fiamme.
Proprio
nel punto che separa le due vie, Wese si arresta; si addentra nell'altra via
soltanto con il bastone puntato per terra. Un capriccio improvviso. E' attratto
dal cielo notturno, dall'azzurro cupo e dai bagliori aurei. Ignaro lo
contempla, ignaro solleva il cappello per accarezzarsi i capelli; nulla si
muove lassù che gli annunci quanto incombe su di lui; tutto resta al suo posto
assurdo e insondabile. Di per sé è assolutamente ragionevole che Wese voglia
fare ancora qualche passo; soltanto che egli va incontro al coltello di Schmar.
“Wese!”,
grida Schmar reggendosi sulla punta dei piedi, con il braccio teso e tenendo il
coltello fortemente inclinato a colpire. “Wese! Julia attende invano!” E Schmar
colpisce nel collo, prima a destra e poi a sinistra, e infine profondamente nel
ventre. Il suono che Wese riesce a emettere assomiglia a quello di topi di
fogna che vengono squarciati.
“Ecco
fatto!”, dice Schmar gettando via il coltello -superflua zavorra del delitto-
contro la casa più vicina.
Da
qui, gettato il coltellaccio, comincio lentissimamente a chiudere la porta
dicendo:
“Oh
estasi del delitto! Sollievo, aerea levità procurati dallo scorrere del sangue
altrui! Wese, vecchia ombra della notte, amico mio, compagno di bevute, ti stai
dissanguando sul fondo di una buia strada! Perché non sei una vescica zeppa di
sangue, sicché potrei sedermici sopra e tu spariresti del tutto? Non tutto si
avvera, ma tutti i sogni in fioritura sono giunti a maturazione; le tue spoglie
grevi sono qui per terra, ed è già impossibile smuoverle per quanti calci si
diano. A che serve la muta domanda che in questo stato tu mi rivolgi?
Pallas,
ingurgitando tutto quel veleno in corpo, compare sulla soglia della porta di
casa di cui si sono aperti i battenti. “Schmar! Schmar! Ho visto tutto, non m'è
sfuggito nulla!” Gli sguardi di Pallas e Schmar s'incrociano. Pallas è
soddisfatto, Schmar resta senza alcuna speranza.
Accorre
la signora Wese con la faccia invecchiata dallo spavento, attorniata da due
folte ali di gente. La pelliccia si schiude; e lei si getta su Wese; il corpo
avvolto nella camicia da notte appartiene a lui, e la pelliccia che come
l'aiuola di un sepolcro si richiude sui coniugi appartiene alla folla.
Schmar
se ne sta lì serrando faticosamente i denti per prevenire il voltastomaco, con
la bocca premuta contro la spalla della guardia, venuta a portarlo via con
passi leggeri.
Sale
luce a sin, la raggiungo in silenzio, solo il frusciare dell'abito, come arrivo
parte musica e qui una delle due: o giro e poi cado; o m'avvicino a luce e mi
faccio scivolare lacrime. Cado, vestito mi contiene e da lì dico.
Eccomi,
intera.
Niente
e nessuno potrà riportarmi dov'ero. Là non ci tornerò più.
Nel
pieno possesso delle mie facoltà mentali, senza esagerare.
Qui
per dire con ardore il dolore di procrastinare la vita, di continuo.
Un
lungo rimando, dolore sordo.
Verrà
la vita e avrà le tue mani, mani grandi, calde, esperte.
Psichiatri
a me! Vi spio dall'alto del mio equilibrio a suon di olanzapina e sertraline.
Guai
a Voi! Non mi tratterrete con la scusa d'esser fesa, nel senso di divisa.
Eccomi
intera.
Se
vorrete si potrà parlare degli ultimi ritrovati nella trafilatura a bronzo
della pasta.
O
dell'abate de Condillac e la sua statua cara ai sensisti.
O
più amenamente del festino di ieri sera a casa di quell'amica che ama tanto il
verde.
Con
la stessa imparzialità posso guardarmi allo specchio senza timore d'inorridire:
comunque rifletto mondo. Che poi non è così immondo come i monnaroli.
Donna
di mondo, con un candore mai perso, sempre pronta allo stupore, Vi sfido a
trovarmi in fallo.
Sosterrò
il vostro sguardo morboso nonostante le borse da thc sotto gli occhi. Chi è
senza peccato? Senza pietra niente parola. Tutto s'impara: ecco perché esser
nata tutto sapendo senza aver nulla imparato, è una condanna.
L'essenziale
è invisibile agli occhi, no?
Ma
al bando i rimandi, intera vi annuncio la mia rinuncia al suicidio. Così, senza
motivo eclatante, semmai movente allettante. Voi direte: fuoco di paglia? Io
rispondo facendo appello alla lentezza del mio segno zodiacale. Segno erotico.
Obs! Eros, Tanatos, goduria dar corpo alla sapienza, il gusto del teatrante.
Che gusto? Che teatrante?
No,
non mi avrete. Vivrò e bene senza di voi. Vivrò certa della grazia della salute
senza essere andata a Lourdes. Un miracolo, o' miracolo, improvvisamente ho
saputo che non avevo bisogno di voi e che voi avreste fatto di tutto per
convincermi del contrario. Vivrò per ereditare, omicidio suicidio. Desiderare
la morte dell'altro, una madre, seppur terrible, una madre.
E'
osceno ma non mi avrete. Guai a voi! Non provateci neppure. Stavolta non mi
avrete! E con voi non mi avranno creditori ed editori: quel che dico non ha
prezzo e ora so di essere libera. Non sono in vendita. Da me, solo verità. Io
calcolo le virgole e i respiri, i punti e i due punti: sono la reginetta del
punto e virgola.
Divago
ma non mi avrete! Vivrò libera da Voi, per sempre. Per sempre libera del tutto
autonoma. Sublimando, per diluire il dolore della vita. C'è chi c'è morto, come
se per desiderio di più vita ci si desse la morte. Paradosso.
Non
mi avrete! Non ho dubbi su ciò che dirò e neppure su quello che direte voi. Non
più “loro”, badate bene, i persecutori lontani, ma voi, qui, in carne e ossa,
tutti insieme. L'occasione è ghiotta, mi sono allenata a lungo, nuotando. E
ogni bracciata era dolore che si scioglieva in acqua.
Tutti
insieme i miei amici nemici, con un'eccezione: un amico amico. Abbiate pazienza
sono al centro e non intendo cedere il posto. Tuttavia, festina lente:
affrettati lentamente. Ecco il fatto, lo ribadisco: ormai cinquantenne,
debitamente sfatta, per non dire squagliata, non voglio più rimandare la vita.
Non più fra un po', ora.
Bevo
o m'inietto qualcosa (?)
Sono
nuova, mai stata meglio.
Nata
tante volte, perlomeno tante quante son mutata, ancora e ancora, metamorphosen.
L'insulto
del tempo, ecco di cosa si dovrebbe parlare. O dell'amore non corrisposto come
il più grande dei dolori.
Ucciderla!
Ucciderla! Ucciderla!
Come?
Un
veleno che non lasci traccia e lasci me straricca. Spaventarla a morte sperando
in un colpo apoplettico. Fingere la rapina e soffocarla con un cuscino. Sogno
di viaggi in Italia; di una casa per tetaranti e musicisti in là con gli anni e
senza nessuno, per loro un una home e il matricidio si fa sensato. A parte i
piaceri come un palco all'opera, ottima cucina, bei libri, doni a chi mi ama,
una casa piena di sole, tanti cani, tante piante, per sempre. Per sempre vivrò
come fosse per sempre.
Ucciderla!
Ucciderla! Ucciderla!
Troverò,
morirà ma non mi avrete. E' la giusta fine di chi mi ha rinchiuso per anni solo
perché ai suoi occhi ero strana.
Anni
importanti. Morirà, sì, morirà. Morirà e nessuno potrà incolparmi. Sì, nessuno.
Matricida che in cuor suo ha pagato in anticipo. Musica per le mie orecchie. Mi
condurrò come una madre con la figlia. Sarò figlia di me stessa. Anche i mostri
sono figli.
Ora
sapete. Sapete e non potete, non si possono processare le intenzioni, no?
Impotenti assistete alla mia deriva omicida. Ora. Ora vorreste che dicessi agli
uni il veleno degli altri e viceversa? Non credo e non temete, non vorrei
schizzarmi: il veleno macchia e l'abito mi costa un occhio della testa.
Psichiatri
addio! Vi lascio senza dubbi in un mondo per voi insensato per me vitale. Vi
lascio alle illazioni lombrosiane, fronte alta, mascella forte, asimettria
pronunciata, bocca scontornata e così via. Via da questo borgo, ovunque, purché
sia via. Via da qui, altrove. La pena è che ogni altrove è un qui da fuir.
Bocca mia santa.
Una
folle, sì, una folle che s'affranca dall'idea di normalità, libera di
pontificare sulla vita come tutti. Libera di dirvi la vostra: maledetti non vi
amerò. Niente sindrome di Stoccolma, never more. Sempre giudicanti, insinuanti,
sedicenti onnipotenti! Mai più. Mai più saprete delle mie pulsioni: nel bene e
nel male, senza al di là. Semmai aldiqua. Con l'ape e il fiore, la volpe e
l'uva.
Folle
e felice, povera e senza speranza perché ormai sono: intera.
Ora
e per sempre la mia nuova vita. Morirà e non ho più bisogno della ragione a
ogni costo perché ho trovato la mia consolazione: se non per mano mia morirà
per mano di Dio, finalmente giusto. Mors sua vita mea.
Pregare
Dio: padre nostro che sei nei cieli sia santificato il tuo nome... A da murì!
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