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Hero, diario di una cattocomunista


Hero, diario di una cattocomunista

No. Non volevo dire questo. Si dice flusso di coscienza, basta mutare segno, un picciolo prefisso, e ci si ritrova un flusso d’incoscienza. Ma, non era questo che volevo dire. Primo ricordo: luce chiara dalla finestra filtrata dalla tenda, la tela svolazza, è bianca. Poi più niente, a lungo. Ma non volevo dire questo. Secondo ricordo: un sogno, l’incubo che mi svegliava ogni notte in lacrime; controluce rosso, un monte ascoso sullo sfondo, in cima la sagoma di un uomo con cilindro, si sfila il cappello e cadono sette teste sette. Ma non era questo che volevo dire. Lo so, lo so: andare avanti di questo passo si potrebbe raccontare una vita, fare un film fin troppo facile. Ma il bello è difficile, è come quando Ettore Maiorana distrugge la formula appena trovata e debitamente provata e riprovata, riveduta, confermata. Il bello è difficile e la filosofia non è per i giovani dice un povero Cristo di poeta, Ezra Pound, dilaniato ancora e ancora, preda di guerra in tempo di pace. Santa Pace. Nomen omen. Mia bisnonna per parte di madre. Pare fossero ebrei, i Pace; arrivati in Sabina nel secolo decimonono dall’esarcato di Ravenna. Sabina, a pochi passi dall’Umbria: mammelloni di terra e ulivi, ansa del Tevere in quel di Gavignano, e torrasa, i Pace. Pare fossero ricchi, tanto. Pare dessero da lavorare a tanti contadini, pare. Pare che per le persecuzioni della Chiesa Cattolica si convertirono, marrani. Pare non sia bastato. Ogni domenica il parroco del nebbioso paese sul fiume, sparlava dei Pace dal pulpito: senza peritarsi di chiedere di tanto in tanto al prozio Ortensio un obolo per sa cresia. Nomen omen: a lungo il prozio cuore gentile e il di lui fratello Paolo, buono come il pane, ignorarono gli strali del prete fanatico, ma…Ma un giorno, finalmente domenica, all’ennesima del prelato, caro caro Paolo, entrasti in Chiesa a cavallo e il porco dall’altare maledì tutti noi fino alla settima generazione! Maledetto tu, brutto porco, che possa marcire in un fondo d’Inferno! No, no, si deve dare l’esempio: non si maledice mai nessuno. E non si bestemmia il nome di nessuno, mai. Mai, mai. Due è l’infinito. Mai, mai. E allora nooooooo, e invece sìììììììì. Porc’oddio, porca madonna. (crolla)
Dov’ero? Ah sì, santa pace. Santa Pace era la sorella del caro Paolo del buon Ortensio. Ma non era questo che volevo dire, e torrasa. Santa Pace con una rendita di terre e diecimila lire in prime nozze sposò un uomo che non le diede figli. In seconde nozze sposò un uomo più giovane di lei di tredici anni che le diede due figli: Pietro e Petra. Pietro, mio nonno, occhi azzurri. Pierina sua sorella diede vita ai Dragonetti ma questa è un’altra storia. Santa Pace sposò in seconde nozze Francesco Urbani detto Checco che combatté a Caporetto e questo è tutto. Anzi no, chiederei: a che generazione siamo? Cofutatis maledictis…voca me cum benedictis! Ed era proprio questo che volevo dire. Come anche del periodo fercoce, l’oggi. Feroce, bellissimo e crudele. Essere arte, far di sé un capolavoro e qui scatta il doppio senso: opera d’arte e datore di lavoro. Amor sui. Ius Roma. Dura lex sed lex. Celles des Celles. Leggere al contrario, un gioco da ragazzi, come i giochi di parole che facevo con mio padre. Caro, caro papà!  Ma non era questo che volevo dire. Ennesimo ricordo: papà mi taglia le unghiette di di manine e piedini, mettiamo il raccolto di unghiette in un pentolino bianco a fiori rossi, papà dice: ora me le cucini con un po’ di cipolla e pomodoro e poi e le mangio. Io vado di là, nella penombra del cucinino giocattolo ed eseguo. Torno e lui le mangia per finta, io tanto contenta. Ed era proprio questo che volevo dire. D’altronde flusso d’incoscienza potrebbe, e uso il condizionale, assumere forma d’ipnosi regressiva: vedere orologi simil Dalì le cui lancette vanno a ritroso, indietro, indietro nel tempo. (crolla)
Dov’ero? Ah, sì, ipnosi regressiva, la praticai in età puberale, utilina. Senza patimento. A farmi tornare mestruazioni dolorosissime, quattordici giorni cum patimento. Ma non era questo che volevo dire: vorrei dire della schiuma dei giorni, dell’oggi. Niente di univoco, solo segni contrastanti. Vorrei dire del mio amore di ragazzo, musicista nato, teatrante per forza, artista a tutto tondo. Un povero Cristo, voca eum cum benedictis! Quando lo sentii e vidi per la prima volta dissi a me stessa: voglio fare per il suo talento e il suo genio quel che nessuno ha mai fatto per me. Sentimento di pietas. Da lì all’amore il passo fu breve e ancor non m’abbandona. Direte sono appena una manciata di mesi, e sia, ma a me sembrano secoli, un’eternità. Sarà che l’ho aspettato per tutta la vita e ora, non sembra vero. A volte credo di essere la reincarnazione di Santa Pace. Dice Gurdjeff che l’anima non vola subito via, resta ancora un po’ sulla Terra. Ebbene io credo che l’anima di nonna Santa  si sia intrattenuta fra noi ancora il tanto per insufflare di sé me. In seconde nozze sposò un uomo più giovane di tredici anni che le diede due figli. Il mio ragazzo. Ma è impossibile, sono in menopausa da chemioterapia. Anche questa, non mi sono proprio fatta mancare nulla fin qui. Fui amazzone. Ed era proprio quello che volevo dire. Uno il cancro se lo fa venire a furia d’infelicità. C’è chi ha studiato associando ciascun tipo di cancro a un dolore dell’anima. Pare che il seno destro equivalga a farsi giustizia su di sé, un matrimonio andato male, un marito perso, un buon marito. Se non fosse che dinnanzi a ogni donna piacente era come un bimbo di fronte alla vetrina di una pasticceria, sbavava. Otto anni così, buono un cazzo! Ma non era questo che volevo dire, anche se il maritazzo poi s’è comportato bene. No, non era questo. (crolla)
Dov’ero? Ah si, mi tremavano le mani e ho preferito proseguire al computer, solo un tratto però. Poi di nuovo a mano, un’arte; come o’ teatro, sto cazz’e teatro. Col mio ragazzo abbiamo in canna perlomeno quattro dico quattro atti di puro teatro sporco: Victor, Lumi!, Cyrano, Macbeth. Castelli in aria, ci s’incontra e si sogna, si legge e si sogna. Intanto provo per conto mio Lumi!, mando a emoria, mastico, faccio senso, riscrivo, trovo azioni, la memoria del corpo, danzo. Papà dove sei? Parla con me. Ennesimo ricordo: casa a Selci, ridente paesino dell’anno mille, sempre Sabina. Ennesimo litigio fra papà e maman, lei è gelosa come una scimmia. Sa di un’altra, fissa, un amore di collega, pare, pare che lei gli abbia dato un figlio. Pare, per ora, seconda metà anni settanta. Papà scongiura maman di salire in macchina e tornare a Roma. E’ estate, le cinque della sera. Maman piange e non ne vuol sapere. Papà carica me, mia sorella e il meticcio Jack e si torna a Rometta. Gran linguaccia interiore a quella strega di maman. Aginulfa, la Giulia bianca in voga all’epoca, sfreccia sulla Salaria; a papino piace correre, papino s’è schiantato più di una volta e gli è sempre andata bene. Ma adesso non sta bene, anzi malino, un dolore sordo al cuore, corre corre sulla Salaria per arrivare a casa e buttarsi sul letto e chiamare me al capezzale del suo ipotetico infarto. E io penso che tutto quel dolore la strega di maman non lo merita. Non era infarto, era fifa, fifa papino: paura di perdere maman, la strega tanto affettuosa. Fifa. Tu morirai quarant’anni dopo, di cancro, all’alba, il 26 luglio, Sant’Anna, mentre ti vegliavo con sorema e maman, a umettarti le labbra e iniettarti morfina. Padre mio. Il mio ragazzo è anche un po’ mio padre, mon coeur. La verità vera può essere temibile perché terribile e dio mi perdoni per averla pensata, perdono, chiedo venia. Mi si sta ristancando la destra, ma stoicamente continuo… Voi ci credete? A che cosa? A un fuoco inestinguibile che vi brucia eternamente? Io sì, ci credo. Voca me cum benedictis! Ma non era questo che volevo dire, e torrasa. (crolla)
Dov’ero ? Ah sì, dannata paura,  a ben guardare non ci sarebbe bisogno del coraggio se questa bestia non esistesse. Ma il coraggio cos’è se non l’animo di farsi forza malgrado il battere dei denti, nonostante sudori freddi o pampori? Ecco, freddo e caldo ravvicinati, sudori gelati o che infuocano come nel climaterio, ovvero quella zona di mezzo prima che una donna diventi sterile luna! Già li sento i commenti, l’autrice, insistendo a più riprese sulla sua precoce menopausa, denota un’insofferenza certa ad accettare l’inevitabile. Sfido io, quando l’inevitabile è di buon auspicio son buoni tutti; ma quando il segno è negativo, allora senti che lai e piagnistei! A che dolersi? Certo non fuggire la cruda sorte è sano, ma per quanto al giorno? Cinque, dieci minuti in tutto, poi è cieca pervicacia. Come maman che dopo il matrimonio s’è fatta un dovere a vivere nel dolore e nel sacrificio invece d’impugnare il suo destino e cavalcare in anticipo, almeno nel bel paese, l’onda del riscatto delle donne, il femminismo. E invece no, no, no. Sempre a piangersi addosso, facendosi anche un culo così (vedi gestaccio dell’autrice mentre dice), ma sempre sempre vanificando più o meno tutto nel prendersela con la cruda sorte. Maman soffre sempre per conto terzi e forse è la condizione questa di chiunque soffra. O bisognerebbe dire chiunque soffra per mancanza di operosità? Mi spiego: forse la sofferenza attecchisce in chi ha un surplus di energia che non debitamente incanalata finisce per ritorcersi contro il suo possessore. Allora la santa energheia si fa malasorte e giù a battersi il petto e quante lacrime inutili; ché forse in un ciglio asciutto alberga più volentieri quella forma di riscatto quotidiano chiamata coraggio. Nient’altro che un colpo di coda ma a volte, quasi sempre, necessario a salvare una giornata, a raddrizzare una vita. Dacci oggi il nostro pane quotidiano. Da un po’ ho riscoperto il toccasana della preghiera e credo che a una creatura non possa capitare niente di meglio che appoggiarsi le mani intrecciate sul plesso solare e avere fiducia, affidarsi per chiedere cose profane o semplicemente ringraziare per quel che le appare riverbero divino in terra. Da un po’ prego in metropolitana, durante l’attesa del treno o in corsa, nelle viscere del sottosuolo, lontana dalla luce, senza imbarazzo e senza gesti eclatanti, pudicamente fra me e me. (crolla)
Dov’ero? Ah sì, e se è vero com’è vero che Dio è onnipotente, ce n’è uno per tutti, comunque lo si voglia chiamare. Ennesimo ricordo: messa delle undici a Santa Maria Maggiore, con nonno Pietro e zia Titti; all’andate in pace si transita di fronte alla cappella laterale sinistra col Cristo in croce, enorme e ligneo. Chiedo chi sia quel poveraccio, zia mi risponde Gesù, e che fa lì, è stato crocefisso, da chi, dagli uomini, perché, perché era Amore e loro non erano pronti: insorgo, cattivi, piango incontenibile le mie lacrime di quattrenne di fronte al mistero più grande del mondo. Da allora non ho fatto che allontanarmi dal cattolicesimo per incontrare tutti gli altri pii della terra. Pio, pio, pio. L’uccellino c’est moi, c’est moi. Rileggo e mi commuovo per me quattrenne. La luce era bianco gelida, veniva da un rosone dall’alto, profumo d’incenso, senso di disperata ineluttabilità. Vorrei tanto far leggere tutto a papà e al mio ragazzo ma niente di tutto ciò è possibile e se è vero che per l’impossibile s’ha da fare tutto il possibile, è evidente che manca la materia prima. Manca il possibile, manca l’uomo (m’accontento anche di scriverlo con la u minuscola). Gli spietati non tornano; ma era proprio questo che volevo dire? La solitudine di una casa tutta per sé è impagabile, la compagnia desiderata veramente pure. (crolla)
Dov’ero? Ah sì, una casa tutta per sé, e invece ora è diaspora, esule lontana da casa nella mia città, eterna Roma. L’uccellino è senza gabbia, ma l’uccellino c’est sempre moi. Lumi! In testa. Grilli in testa! A Roma si dice sartapicchi. Ma non era questo che volevo dire. Lumi! Sì! A ogni costo; anche a rischio di farlo nella grotta della Libreria: due mini ritratti, uno per Rousseau, uno per Sade, il mio Settecento. Ecco, il senso di colpa che morde, che morde. Dovrei dedicarmi alla mia creatura rococòcomunista e invece mi dilungo in questo pasticciaccio di Via Oslavia in Prati. Quanto sei bella Roma! Fumo, leggero ma fumo, fumo negli occhi, pizzichìo, sei tu papà? Dove sei? Parla con me. Ennesimo ricordo: papà mi aiuta a fare i compiti sulla vetrinetta trumoncino stile impero in cuoio rosso e oro; è il quarto ginnasio e dopo anni di compiti insieme lui è stanco e arranca nell’apprendimento del greco mentre io vo come un treno. In latino ero una sega ma greco e matematica, fisicachimica e filosofia al liceo erano il mio pane. Ora papà è triste, è da un po’ che non ci si sopporta, si litiga spesso. Capita anche col mio ragazzo catti cattivissimo. Allora con papà qualcosa si ruppe, non è detto che anche stavolta: cric crac. (crolla)
Dov’ero? Ah sì, no, stavolta no, niente rotture, coppia di elastici; si tira si ritira, ci si allunga all’inverosimile e poi, poi si torna, ogni mattina la santa telefonata, tutto bene? Siamo vivi? Io e il mio ragazzo, sessualmente analfabeti, due tronchetti che si amano oltre ogni dire ma sessualmente ebeti. Chissà, forse è lo spirito che ingombra, forse tanto bene non lascia posto al desiderio, forse. Ci sarebbe da parlarne ma come? E’ così tanta la stima che voler indagare zone erogene o pratiche foriere di orgasmi risulta risalta come una bestemmia. Eppure complicità dev’essere una bella parola , lo è, e fra noi, caro papà, ce ne era tanta! Tu che m’istruivi a camminare dalla parte del muro per quando avrei avuto un ragazzo! Sempre sulla parte interna, dicevi, protetta da lui. Come non è vero oggi, oggi che mi ritrovo a proteggere me stessa e lui. Tardona eternamente adolescente alle prese con un ragazzo che scalpita per farsi uomo. Ragazzo, ammesso e non concesso che nel mezzo del cammin si possa essere ancora ragazzi. Ed è proprio questo che urgeva dire. Il mio teatro no, non è urgente, è improrogabile e di fatto non c’è prebenda che tenga: enpals, inps, siae, pubblicità, poltrone e palcoscenico. Niente di tutto questo, spazzato via dalla necessità del modo imperativo: faccio quello che dico. E non voglio parlare di prebende che nella migliore delle ipotesi finiscono per parlarti; come gli psicofarmaci, azzerano le interconnesse dimensioni, per lasciarti relitto sulla spiaggia della durata in barba all’essere. E’ così, ogni volta che ho fatto di me stessa fiamma, parenti o amici hanno impugnato l’estintore della psichiatria. Così, d’un colpo e a più riprese, seppi che la vita fa paura se la fiamma brucia troppo alta, e gli altri preferiscono preoccuparsene anziché occuparsene. (crolla)
Dov’ero? Ah sì, questa è farina del tuo sacco, padre mio teatrale e di te capisco ora, per necessità, quel che non ho capito in trent’anni, persa nei giochi di parole. Anche tu, padre mio, come papà amavi giocare con le parole, e le risate, le risate; le illuminazioni, le illuminazioni. Padre mio, quell’anno maledetto è stato fatale anche a te come a papà. E a me. Con la differenza che io non sono morta, ci sono solo andata vicina. Voi non lo sapete, papà e padre mio, ma mentre morivate la vostra screanzata figlia scopriva di essere nelle mani della morte. Al computer le braccia mi s’intorpidivano, formiccicavano e un giorno, facendo la doccia, insaponando il seno destro m’accorsi di una noce, più grande di una noce. Era agosto e vinte indolenza e paura mi misi a cercare un medico che sapesse diagnosticarmi un nonnulla, così speravo. E invece no, no, no. No, non era questo che volevo dire ma andava detto e anche quello che segue. Per quattro mesi incorsi in malasanità poi, per farla breve, lasciata l’Isola e la periferia dell’Impero, fui operata a Roma. Doveva essere una semplice quadrantectomia, routine. All’anestesista che mi pigliava a schiaffoni per svegliarmi chiesi: la sisa c’è ancora, in parte fu la risposta: allora capii la menzogna e iniziai a maledire e bestemmiare. Così su di giri, al dottorino che in corsia venne a chiedermi come mi sentissi dissi, Dio è morto, Marx è morto e io non mi sento molto bene; sentenzio fosse ancora l’effetto dell’anestesia ma zia Titti protestò indignata, no, no, lei è proprio così. Così come? Tempo venti giorni e incontrai per profilassi l’uomo forte della mia vita, l’her professor che amai al vederlo. Per prima cosa disse, signora lei ha una spilla bellissima, era una stella rossa in campo oro, lui è comunista; io sorrisi e pensai, e questo Prigione di Michelangelo da dove scappa fuori. Poi per otto mesi vissi mondi paralleli vedendo cose che voi umani manco immaginate, sei anni fa: l’importanza dei numeri. Ennesimo ricordo di allora: all’Isola Tiberina, sulla prua, col turbante anticalvizie, guardo a sinistra e scorgo nella pietra un Asclepio con tanto di caduceo; guardo a destra e vedo la nicchia aperta di Ponte Rotto: il tempo di una raffica di sinapsi e avevo scritto un pezzo di teatro da fare lì, all’Isola della salute, Tarpea o della Scienza. Ci provai, ma Roma si prese gioco di me. Da allora l’amore her professor fu per me Asclepio, il dio che veniva in sogno per dire la cura. Un amore durato sei anni, i numeri, e torrasa; fedele fino al mio ragazzo narcisetto sadichetto per infausta maschera, uno strazio ma pur sempre un amore di ragazzo. Rileggo e il periodo lungo mi disturba, era meglio scrivere durante la schiuma dei giorni, ora è tardi, la psichiatria rovina tutto. Ed era proprio questo che volevo dire. Se non prendi le medicine, dice la mia amica, finirai dentro e fuori il manicomio, dentro e fuori fino alla fine, allora agito corna interiori e mi tocco il culo, o’ veramente. (crolla)
Dov’ero? Ah sì! E intanto Lumi! è più lontano per via della realtà maledetta, i soldi. I soldi fanno schifo, bisognerebbe tornare al baratto, le chiamerei banche del bisogno: lei di cosa necessita, una casa due camere e cucina, bene, quali talenti è disposta a scambiare, so far teatro, scrivo, cucino, insegno bellezza con scrupolo acutissimo, per il resto sono una sega. Bene, la impegneremo per la bellezza con scrupolo ma ci dica meglio cosa intende: bè so trasmettere amore per la parola, tradurla in tempo e inscriverla in uno spazio. Bene, abbiamo bisogno di persone come lei. E invece no, no, no. Invece devi riciclarti come si dice, inventarti cameriera ai piani, segretaria o chissà cos’altro per poi stramazzare sotto l’inadeguatezza e prenderti un sonoro calcio in culo. Per non parlare degli anni a far la giornalista sui generis per via dell’anima; da cronista  in cultura pensavo, è necessario render merito a chi ha sudato per questi libri, questi spettacoli. E da cronista in cronaca dicevo, c’è da dar voce a chi lavora, chi lotta, chi protesta. Tutto per pochi euro al pezzo, sia che scrivessi trenta righe sia che ne scrivessi quattrocento, e infatti dicevano fossi pazza. La pazzia, me ne perseguita la nomea dai tempi del liceo. Terribile ricordo: all’ennesimo litigio violento di papà e maman, sorema con gli occhi gonfi di pianto e un ghigno di cieca vendetta mi si accosta e simil Iago mi fa, lo sai perché litigano sempre, gelosia, sì ma ora c’è qualcosa in più, cosa, lei ha saputo che lui ha avuto un figlio da un’altra, una collega, sempre la stessa. Sentii uno schianto dentro, com’era possibile, il mio papà tanto cretino. Non è possibile, e invece è così, sei solo cattiva e maligna, no sei tu che neghi l’evidenza io lo so per certo, ma chi ti ha detto, lo so fidati. Sentii che schianto era, non sarei più stata quella di prima. Tempo un paio di settimane e smisi di frequentare il liceo, la classe tanto amata al Visconti. Spazzato via tutto. Per riprendermi dovetti lavorare una stagione, poi decisi che era meglio tornare a scuola. Era il millenovecentoottanta e il mio Calvario s’era inaugurato. Poi a quella storiaccia non volli pensare più. So solo che papà e maman inscenarono una gran riconciliazione con tanto di risposalizio e modifica della data sulle fedi: millenovecentottanta, per me anno di disgrazia, il primo di tanti. O papà mio, come hai potuto tradirmi così e soprattutto come hai potuto abbandonare quel figlio a se stesso e a sua madre. La famiglia, andrebbe stroncata sul nascere a chi non è in grado di amare. Perché sia chiaro, non ci resta che l’amore, non c’è altro. Lo dicevo al mio ragazzo che una volta tanto sembrava credermi: non c’è altro eh? No. Ma è poi vero possa esserci chi non sa amare? Di sicuro tutti abbiamo bisogno d’amore e se bimbi siamo stati amati la vita sarà vivibile sennò un inferno. Io sono a metà perché sono stata amata da Titti, da papà, dal padre e dalla madre teatrali, da tanti uomini e ora da tanti amici. E’ anche vero che da tutti coloro che mi hanno amata sono riuscita a farmi odiare. Il mio ragazzo è come quei bimbi che si obbligano per finta la serietà e poi restano tristi per sempre. Non sa più amare. Ennesimo ricordo: ultima cena con te padre mio, ferita aperta nel cuore del teatro nostrano, a un tratto, nell’eccitaione fredda che era tua, tu offendesti di proposito una mia ospite, non l’avessi mai fatto, a sua difesa iniziai a dirtene di tutti i colori, vent’anni di rimosso tutti in un colpo, anzi, a brindisi, ogni torto un “Fetsen!”, proprio così, “Festen!”. Ed era proprio questo che volevo dire, via pietre dal cuore. Con i miei fantasmi ho a che vedere ogni santo giorno, son tanti. C’è il tempo del primo ricovero in manicomio, il primo di tanti; c’è il tempo degli aborti imperdonabili; il tempo della mortificazione; l’ansia del futuro così incerto, sparsa per Roma, il corpo di Osiride, o Iside, Iside dove sei? (crolla)
Dov’ero? Ah sì! Col mio ragazzo non ci si sente più, due imbecilli. Rileggo e penso quanto sia difficile scrivere. Italo Calvino diceva che scrivere è un atto schifoso e aveva ragione da vendere; a questi miei minimi livelli poi è particolarmente schifoso, lo so, lo so. Il privato si lava in piazza, diceva il mio ragazzo. Lo sto facendo no? Lo sto facendo, didascalicamente, femminilmente, ma lo sto facendo! Ora prego meno, troppo triste, troppo triste. Pregare è rendere grazie e nella grazia chiedere. Chiedere nella disgrazia è orribile. L’attesa di Dio mi vieta di pregare invano, invano invocare il suo Nome. Voca me cum benedictis! Santo Tourette! Ristabilire simmetrie. Non quelle scritte, quelle non scritte. Ennesimo ricordo: la prima dell’Antigone di Sofocle, sono Antigone, è il millenovecentottantasette; senza un cedimento, debitamente razionale, quel tanto di cuore che scongiuri l’esser algida. Dissero ero stata straordinaria, ma tu padre mio dicesti no, straordinaria tu non sei, sei brava ma non straordinaria, straordinaria è Marisa Fabbri. Sei brava ma non straordinaria. E invece per tutta la vita mi son sentita dire essere straordinaria: Dio, Dio perché mi hai abbandonato? (crolla)
Dov’ero? Ah sì! Il peso di un talento mortificato, non lo immaginate eh? E io non ho lacrime da far perdere nella pioggia. O papà mio! Liberami da questo teatro ingrato, dal mio ragazzo catti cattivissimo, dal maritazzo senza più cuore, liberami da tutti gli uomini con la u minuscola, dammene uno con la U maiuscola! Ora se prego, prego papà, santo subito solo per aver sopportato cinquant’anni maman, cinquanta mica uno. Il mio eroe che però c’ha rimesso le penne: d’infelicità si muore e maman da ultimo t’ha fatto scontare tutto. Tutte le intemperanze, tutti i tradimenti, il figlio illegittimo rimosso eppure sempre presente nella remissione dei peccati. Povera strega di maman, aggrappata a un’idea d’amore normale, come se l’amore avesse a che fare con le buone ragioni, così non è. Lo scrivono in tanti, la lista sarebbe troppo lunga e il mio sapere è picciola cosa. Basterebbe sapere bene quattro cinque libri, non solo conoscerli, più saperli, sapere, sapore. (crolla)
Dov’ero? Ah sì! Amore amore, lieto disonore: lodate lo poeta! O toglietemi la vita ma rendetemi il mio amore, canta Elvira nei Puritani di Bellini; e sempre pazza canta: ah se piangi allor tu sai che un cor fido nell’amor sempre vive ne dolor, oo rendetemi la speme o lasciatemi morir! O papà caro portati via tutti ma rendimi il io ragazzo terribile, enfant terrible. Finirà come tutto: tanto maschi e femmine vanno tutti alla malora, dice la Marie di Woyzeck. Fa una brutta fine la Marie. Accoltellata dal padre di suo figlio uscito pazzo di gelosia. La gelosia del mio ragazzo, ingiustificata ché amo solo lui, comunque, come sempre, niente di univoco. Voca me cum benedictis! Asclepio mi augura di trovarne uno con la U maiuscola. Fosse vero, perché in due si fa meno fatica, ci si può affidare all’altro quando si è stanchi. Come dice Kierkegaard, mentre me ne sto assorto a cercare di decifrare uno spirito da una frase in greco antico e rimugino incerto, arriva soave mia moglie e con un solo gesto scansa il moscerino dalla pagina e la frase acquista un senso altro e compiuto. Un compagno così mi ci vorrebbe, soave e partico. Per controbilanciare la mia imbranataggine congenita, ma tutti quelli che mi capitano ricordano è ricca, la sposo e l’ammazzo. Ecco, s’arriva a non saper andare oltre, sembra non ci sia più niente da dire, da ricordare. E invece no, no, no. Rileggo e provo pena per me quarantaseienne uscita un mese fa dal manicomio, aggrappata a queste parole come se ne valesse la vita. Lo so, lo so, non si chiamano più manicomi, ma il risultato non cambia. Chissà perché di tanto in tanto abbiamo bisogno di cambiare nome alle cose, forse per dissociarci dalla miseria che quei nomi significano e piuttosto che mettere mano alla sostanza ci si accontenta di nuovi nomi. (crolla)
Dov’ero? Ah si! Il nuovo arriva inaspettato: o papà grazie, grazie con tutto il cuore dei miei peccati per avermi reso il mio ragazzo! Non so se la sua è una U o una u, fatto sta che è tornato e la vita è tutta diversa, tutta un’altra cosa. I piedi ora poggiano bene, aderiscono senza traballamenti a terra, Santa Terra. Sembra una scempiaggine e invece è vero, esiste una fisica del malcontento, una fragilità di tutto il corpo: postura accartocciata, blindismo, precarietà anche solo nello stare in piedi. (crolla)
 Dove sono? Ah sì, no, sìììììì. Sei mesi, son trascorsi appena sei mesi e tutto è accaduto. Sono rifinita in manicomio, lo so che non si chiama così, lo so! E’ che ho ingoiato centoventi pastiglie, volevo morire per le angherie del mio ragazzo, troppo triste, troppo triste. Lui, non sa niente, è scomparso nel nulla. Quanto a me, dopo una settimana in diagnosi e cura un mese fra i pazzi veri: Signò, ce l’hai una sigaretta? Signò, ce l’hai cinquanta centesimi? Così tutto il giorno, stavo per diventare pazza davvero. Epperò c’erano gli amici, tanti; mi amano per quello che sono loro, non chiedono d’essere altro  come quel ragazzo: la scoperta di Sade è che in tutti c’è sadismo! Maledetto il giorno che t’ho incontrata! Poverino, uno con la u minuscola. Ultimo ricordo: andando via mi disse, la tua pietà mi rende più crudele. Ma l’amore mio di donna, è forte come la morte, ed era proprio questo che volevo dire. Avessi avuto un figlio, l’avrei voluto maschio, per farlo Amore, come Penia, compagna per una volta di Poros; Penia che prese di rapina l’Abbondante e partorì croce e delizia, Eros. Figlio di Miseria e Ingegno, bisognoso come la madre, poroso come il padre, come la pietra pomice, non a caso si dice pomiciare. Ma ora è tardi, finiamola qui. Ora voglio solo Tempo: vita mia, a noi due!



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