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Animo, Anima!


ANIMO, ANIMA!

Lo spazio scenico è vuoto, a metà, frontale al pubblico, il piccolo sipario rosso chiuso, che prosegue a terra con uno strascico altrettanto rosso fino al limite del proscenio.

Entro in scena da sinistra, sottobraccio la ruota girevole, in mutande e canottiera. Luce da sagomatore tutto a destra; alzo la ruota sulla spalla, a farmene una testa, dico:

Con le parole guerra alle parole: il più grande talento è rendersi felici, e il genio? Per conoscere la felicità, bisogna avere il coraggio di trangugiarla!

Indi poggio ruota a terra e, ridendo di "M" (mmmmmmmm) mi siedo simil manichino per l'esposizione dei collant e, iniziando a girare, dico:

Gli attori, non sanno tener segreti. Spifferano ogni cosa.
(ferma, tirando giù le gambe come una bambola sul divano d'antan)
 Il resto, è silenzio?
(di nuovo su le gambe e giro)
Neanche per idea.
(di nuovo ferma come sopra)
Noi sfidiamo i presagi. Ha senso,
(riprendo a girare con le gambe come sopra)
ha senso anche la caduta d'un passero. Se è ora, non è dopo, e se dopo non è, allora è adesso; e se adesso non è, dovrà pur essere.
(ferma come sopra, in un gran sbadiglio)
Tutto è aaaasssoluto.
(rigiro come sopra)
Tutto è tenersi pronti. Poiché nessuno sa quello che lascia, che importa lasciare prima o poi? Lascia andare.
(A “lascia andare” l'anima striscia per terra dicendo):

Prodromo.
(strisciando per tutto proscenio, lentamente, faticosamente, avanzando come in trincea) Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire. I chicchi si aggiungono ai chicchi a uno a uno e poi, un giorno, all'improvviso, c'è il mucchio, un piccolo mucchio, l'impossibile mucchio. Non possono più punirmi. E' finita, ormai abbiamo finito. Non c'è più bisogno di te. Era ora. Vi lascio. Prima di partire, dì qualcosa. Non c'è niente da dire. Ah! Qualcosa...che venga dal tuo cuore. Dal mio cuore! Qualche parola...del tuo cuore. Il cuore, il cuore, i cuori, i cuori...
(canto cabaletta de La Sonnambula sdraiandosi a faccia in su)
Ah, vorrei trovar parole, a spiegar com'io t'adoro, ma la voce, o mio tesoro, non risponde al mio penzier! Ah, vorrei!
(sempre sdraiata, ma su un fianco, guardando il pubblico)
E' facile andare.
(riniziando a strisciare verso sipario rosso)
Clov! Niente! Clov! E' quel che chiamiamo guadagnare l'uscita. Ti ringraziamo Clov. Ah, prego, sono io che vi ringrazio. Siamo noi che ringraziamo. Ancora una cosa. Un'ultima grazia...
(alzando braccio destro e scrollando mano verso il cielo)
Molla questa mano, perdio, e crepa! Crepa!
(riabbassando il braccio)
No?
(ristriscio)
Pazienza. Pace alle nostre chiappe.
(da qui carponi e gattonando dice il seguito, fin dentro sipario rosso)
Un po' di poesia. Chiamavi...Reclamavi la sera; ed eccola che scende. Era il momento che aspettavo. Lui non si rende conto, non conosce che la fame, il freddo e, in fondo, la morte. Ma Voi! Voi dovreste sapere che cos'è ormai il mondo. Oh!
(sull'Oh! dietro il sipario, su controluce, in piedi gradualmente)
Bè ce l'ho fatta, ci sono arrivata, adesso basta. Ma sì! Bene.
(in ginocchio)
Padre mio! Padre mio! Bene. E per finire? Ecco!
(canto l'ultima battuta di Violetta, ormai è in piedi)
Ah, ma io ritorno a viver, o gioia!
No? Pazienza. Vecchio cencio
(accarezzo sipario, in croce)
e allora che sia finita, che salti in aria! Noooooooooooooooooooooooooooooo! Aita, aita, parea dicesse; e da le aurate volte a lei l'impietosita Eco rispose:

(su musica, finale dell'Aida)

O terra, addio; addio valle di pianti sogno di gaudio che in dolor svanì
a noi si schiude il cielo e l'alme erranti volano al raggio dell'eterno dì.

(mentre va musica, piego foglietto/lamina e me la ficco sotto la lingua. A fine musica, su occhio di bue frontale sul sipario, piccolo, il tanto da incorniciare testa e spalle, oppure, lamina proiettata con dia. Sbuca testa, dico sbiascicando con lamina in bocca):

Che per nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini.
(sputo lamina, sbucano le braccia, dico)
Ora moristi e ora nascesti, o beatissima, in questo giorno. Dì a Persefone che ti liberò proprio Bacchos.

(esco da sipario e barcollando, malcerta sulle gambe, raccolgo lamina sputata, la srotolo e leggo):

Ma quando l'anima lascia la luce del sole, procedi diritto verso destra, tu che hai tenuto bene a mente tutti i precetti. V'è sulla destra una fonte, accanto ad essa si erge un bianco cipresso; lì discendono le anime dei morti per aver refrigerio. A questa fonte non accostarti neppure; ma più avanti troverai la fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi, ed essi ti chiederanno perché mai esplori la tenebra dell'Ade. Di': "Son figlia della Greve e del Cielo stellato; di sete son arsa e vengo meno: ma datemi presto da bere la fredda acqua che viene dal lago". Ed essi son misericordiosi e ti daranno da bere del lago di Mnemosyne. Allegrati, tu che hai sofferto il patimento: tale non mai prima soffristi. Da mortale sei divenuta un dio: capretto verso il latte ti lanciasti. Allegrati, allegrati tu che procedi a destra verso i prati sacri e i boschi di Persefone.

(Indi su musica suite per violoncello di Bach; esplodo in danza di gioia co(s)mica: corsette verso destra, ma poi penso che chi mi guarda mi vede andare verso sinistra e allora vado nella direzione opposta, ci ripenso e così, avanti e indietro, fino alla fine del brano, quando esausta e felice faccio per addentare una melograna trovata in una cesta a destra, ma subito mi riprendo e parte registrazione):

Ferma! Fermati infelice!
(Mi astengo dall'addentare il frutto, e, trovando altre melagrane con tanto di boccino, inizio, lungo la scia rossa che unisce il sipario al proscenio, una partita in solitaria)
E' vano il tuo errare in questi luoghi aspri e desolati. Davanti a te si stende la lugubre pianura, a perdita d'occhio, e quello che vai cercando è sempre dietro a te. Spingere lo sguardo avanti o in alto non è possibile, il cupo antro del Tartaro ti preclude la visione di quel cielo che un tempo nella felice dimora di tuo padre contemplavi con occhi innamorati. Ahimè, figlia di Giove, in quale abisso ti sei perduta!

(Fine registrazione. Riattacco):
Mi hanno strappato via
i rapidi cavalli dell'Orco;
il dio spietato mi ha stretto
nelle sue forti braccia.
E Amore... Amore è volato sull'Olimpo, ridendo.
Dio sfrenato, cielo e terra
per te non erano abbastanza?
Vuoi accrescere le fiamme dell'Inferno
con il tuo fuoco?

Strappata via, scagliata
in questo abisso infinito.
Regina, qui!
Regina?
Davanti a me si prostrano ombre soltanto.

Senza speranza è il loro dolore.
Senza speranza è la sorte dei defunti
e io non posso mutarla.
A giudici severi
li ha consegnati il destino,
e fra di loro mi aggiro,
io dea, io regina,
io stessa schiava del destino.

Anime dei morti, nel vostro quieto andare
mi passate solamente davanti:
no, la mia strada non è con voi.
Nelle vostre danze lievi, nei vostri segreti recessi,
nella vostra dimora piena di sussurri
non c'è fremito di vita come lassù nel mondo,
non c'è la beatitudine che oscilla
fra dolore e gioia.

E non  vi è neppure nelle sue fosche ciglia
e nel suo sguardo chiuso:
puoi chiamralo sposo?
O dargli un altro nome?
Amore, Amore!
Per un breve istante gli hai aperto il cuore. Perché?
E perché mai per me
se tu sapevi
che si sarebbe chiuso poi, per sempre?
Perché ha voluto me, la figlia di Cerere?

Madre, Madre mia!
La tua divinità ha smarrito il suo potere
e tu perdi tua figlia,
la figlia che credevi felice.

Ahimè, certo tu sei veuta,
certo hai chiesto di me "Dov'è andata, dove?" tu gridi.
"Quale strada ha preso il folle iddio?
Attraverso le tenebre io la inseguirò,
non avrò pace finché non  la trovo
nessun ostacolo, da nessuna parte,
potrà farmi paura".

Ti guardano i tuoi draghi
avvezzi a percorrere ogni via, docili alla guida
ma nella deserta solitudine ti perdi -

No, non di qua, di qua no!
Non nell'abisso della notte oscura,
dove non osano addentrarsi gli Immortali,
non là dove tua figlia giace
oppressa dal peso dell'orrore. In alto, in alto
volgi in alto il volo dei serpenti,
in alto alla dimora di Giove!
Lui sa,
lui solo sa, il re degli dei,
dov'è tua figlia.

O padre degli dei e degli uomini,
ancora sei lassù sul tuo trono dorato,
dove così spesso sollevavi
me, bambina, con amore
e, per gioco, tenendomi tra le braccia
mi facevi oscillare nell'infinità del cielo, e io, sospesa così in alto, tremavo...
Mi sei padre ancora?

No, non alla tua altezza
nell'azzurro eterno
del cielo scintillante di luce –
Qui, qui!

Guidala qui!
Perché con lei io possa
risalire da questo carcere.
O padre carissimo
tu mi ascolti,
tu mi solleverai
mi solleverai in alto un'altra volta;
e io, libera da questa lunga, greve pena
ritroverò nel tuo cielo la mia gioia.

Fatti coraggio, cuore desolato!
La speranza, ah la speranza illumine
le tenebre della notte tempestosa.

Non più rocce né muschio
su questo suolo,
non più solo cupo orrore
su questi monti:
un fiore, ho ritrovato un fiore!
E questa foglia appassita
è ancora viva
e aspetta ancora
di potermi rallegrare.

E' strano! E' strano!
Non è questo il frutto
che tanto mi piaceva
lassù, nei miei giardini?

Lascia che ti assapori
dolce frutto,
fa' che io dimentichi
tutti i miei affanni,
fa' che io immagini
di essere ancora lassù
nel tempo sereno
della mia ridente giovinezza,
tra il profumo dei fiori
e la delizia degli aromi
che mi stordivano
e m'inebriavano.

(Addento la melagrana)

E' dolce, è buono! Ma ecco, all'improvviso
in questa gioia
in questo piacere intenso,
all'improvviso irrompe
con mani di ferro
con agghiacciante dolore,
all'improvviso irrompe l'Inferno –
che male ho fatto
nel gustare il frutto?

Perché la gioia che provavo prima
qui mi dà tormento?
Che cosa sta accadendo?
E' spaventoso: le rocce ricadono a strapiombo,
si chiudono salde intorno a me.
Pesanti nuvole gravano sul mio capo
e laggiù nel lontano grembo dell'abisso
rombano sordi tuoni di tempesta.
Nei loro regni remote
le Parche mi gridano:

(Parte registrazione)
Tu sei nostra!
Il decreto di tuo padre è questo:
ritornare senza aver toccato cibo;
e tu hai morso il frutto: ora sei nostra!
Sei la nostra Regina, ti onoriamo.

(Fine registrazione. Riattacco):
Padre, tu l'hai detto? Perché, perché?
Perché mi hai ripudiato, che cosa ho fatto?
Perché non mi richiami
al tuo trono di luce?
Perché quel melograno?
O frutto maledetto!
Perché i frutti sono belli se sono dannati?

(Riparte registrazione)
Sei nostra.
Perché ti affliggi?
Guarda, noi ti onoriamo,
nostra Regina.

(Fine registrazione. Riattacco):
Se il Tartaro non fosse già la vostra dimora,
è là che vorrei scagliarvi, maledette!
Sono regina
e distruggervi non posso.
A voi mi leghi l'odio, in eterno.
Attingete l'acqua, figlie di Danao!
E voi, Parche, tessete il filo!
Imperversate, Furie furenti!
Un misero destino ci unisce in eterno.
E io che regno su di voi
sono di voi tutte più misera.

(Su registrazione)
Sei nostra.
Ci inchiniamo a te.
Sei nostra, nostra!

(Fine registrazione. Riattacco):
Andate via!
E via da me
la vostra fedeltà e il vostro impero.
Vi odio.
E te, ti odio dieci volte tanto.
Ahimè, già sento
il tuo aborrito abbraccio.
Perché verso di me stendi le braccia?
Rivolgile all'Averno!
Sposo orribile
ti odio
Plutone, o Plutone, dammi la sorte dei tuoi dannati
ma non chiamarla amore.
Scagliami con queste tue braccia
nella pena che annienta.

(Registrazione tuoni. Cadendo a terra, recupero garza-lamina che sarà strada e bende. Fine tuoni, dico Rilke):

Era l’ardua miniera delle anime
Correvano nel buio come vene
d’argento, silenziose. Tra radici
sgorgava il sangue che poi sale ai vivi
nella tenebra duro come porfido.
Poi null’altro era rosso.

V’erano rocce
e boschi informi. Ponti sopra il vuoto
e quell’immenso grigio, cieco stagno
che premeva sul fondo come un cielo
di pioggia sui paesaggi della terra.
Fra i prati tenue e piena di promesse
correva come un lungo segno bianco
l’incerta traccia della sola strada.

E quell’unica strada era la loro.

Avanti l’uomo nel mantello azzurro
agile, con lo sguardo volto innanzi
muto e impaziente. Il passo divorava
la strada a grandi morsi. Gravi, rigide
cadevano le mani dalla veste
e ignoravano ormai la lieve lira
cresciuta alla sinistra come un cespo
di rose in mezzo ai rami dell’ulivo.
E i suoi sensi rompevano discordi:
lo sguardo andava innanzi, si aggirava
come un cane, era accanto e poi di nuovo
lontano, fermo sulla prima curva –
l’udito indietro come resta un’ombra.
Talvolta egli credeva di tornare
ai due che indietro sulla stessa via
dovevano seguirlo. Poi di nuovo
alle spalle restava appena l’eco
dei suoi passi e il mantello alto nel vento.
Ma diceva a se stesso: Essi verranno –,
ad alta voce, e si sentiva spegnere.
E tuttavia venivano ma due
dal lentissimo passo. Se egli avesse
potuto volgersi un istante (e volgersi
era annullare tutta quell’impresa
che si compiva ormai) li avrebbe visti,
i due che taciturni lo seguivano.

Il dio dei viaggi e del lontano annunzio
che innanzi a sé reggeva la sottile
verga, e aveva sugli occhi il breve casco
e alle caviglie un palpitare d’ali;
e affidata alla sua sinistra: lei.
Lei cosí amata che piú pianto trasse
da una lira che mai da donne in lutto;
cosí che un mondo fu lamento in cui
tutto ancora appariva: bosco e valle,
villaggio e strada, campo e fiume e belva;
e sul mondo di pianto ardeva un sole
come sopra la terra, e si volgeva
coi suoi pianeti un silenzioso cielo,
un cielo in pianto di deformi stelle –:
lei cosí amata.

Ma ora seguiva il gesto di quel dio,
turbato il passo dalle bende funebri,
malcerta, mite nella sua pazienza.
Era in se stessa come un alto augurio
e non pensava all’uomo che era innanzi,
non al cammino che saliva ai vivi.
Era in se stessa, e il suo dono di morte
le dava una pienezza.
Come un frutto di dolce oscurità
ella era piena della grande morte
e cosí nuova da non piú comprendere.

Era entrata a una nuova adolescenza
e intoccabile: il suo sesso era chiuso
come i fiori di sera, le sue mani
cosí schive del gesto delle nozze
che anche il contatto stranamente tenue
della mano del dio, sua lieve guida,
la turbava per troppa intimità.

Ormai non era piú la donna bionda
che altre volte nei canti del poeta
era apparsa, non piú profumo e isola
dell’ampio letto e proprietà dell’uomo.
Ora era sciolta come un’alta chioma,
diffusa come pioggia sulla terra,
divisa come un’ultima ricchezza.
Era radice ormai.
E quando a un tratto il dio
la trattenne e con voce di dolore
pronunciò le parole: si è voltato –,
lei non comprese e disse piano: Chi?

Ma avanti, scuro sulla chiara porta,
stava qualcuno il cui viso non era
da distinguere. Immobile guardava
come sull’orma di un sentiero erboso
il dio delle ambasciate mestamente
si volgesse in silenzio per seguire
lei che tornava sulla stessa via,
turbato il passo dalle bende funebri,
malcerta, mite nella sua pazienza.

(Mi scuoto all'Alberto Sordi e dico):

E no, eh! Così non ha da esse! 
(Poi, con voce da moviola annuncio):

Ma, torniamo un attimo indietro!
(Su registrazione all’indietro mentre torno letteralmente indietro sui miei passi, ma di spalle, ripasso il sipario, lo metto di profilo al pubblico, rimango a metà, inizio il dialogo tra l'io e il piede):

Io posso rispondere con un fatto, un tragico fatto, che diede una soluzione inaspettata ad un dialogo che m'è accaduto di sorprendere fra l'"io" e il suo piede che si trovava ad esser distorto:

L'io - Che fai cammina...
Il piede - ...
io. Stai lì gonfio, stupido, silenzioso! parla!
piede. ...
io. Parla, il padrone sono io!
piede. Ahi!...
io. E di che ti lamenti?
piede. Ohi!
io. Ma che cosa ti fa male?
piede. Io!
io. Scherzi?! suvvia, meno storie, cammina!
piede. Non posso!
io. Perché non puoi?
piede. Mi duole!
io. Chi ti duole?
piede. Io.
io. O insomma!  quante volte io mi dolgo - eppure ho sempre camminato.
piede. Bravo-o!
io. Di che ridi ora?
piede. Di te.
io. Anche questo!
piede. (dà segni d'ilarità)
io. Insomma mi vuoi dire che cosa trovi tanto ridicolo?!
piede. Il padrone non trova ridicolo un ragazzo che a cavallo d'una pietra crede di viaggiare per tutto il mondo?
io. Questo che c'entra?
piede. Il padrone è come quel ragazzo!
io. Sei pazzo!
piede. Non sono mai stato più saggio! E il padrone non ha mai camminato! mai camminato! mai camminato!...
io. Ma che dici? che ne sai tu?
piede. Mai camminato! e io lo so molto bene. Perché tu di lassù fermo fermo dicevi "cammina". Ed io, povero cristo, cominciavo a manovrare per la polvere, pel fango, pei sassi, in pianura e su pei monti, finché, come vedi, mi sono ridotto in questo bello stato  - e tu vorresti farmi camminare ancora! Senza cuore!
io. Senza cuore? questa sarebbe un'altra allusione.
piede. Già ti dicono cordiale, ma non è mica merito tuo, è merito del tuo cuore...se l'hai. Ma credo che tu non l'abbia!

io. Ma sono tutte cose mie, tu sei mio, tutte le membra con tutte le loro potenze sono mie e il cuore con tutte le sue passioni è mio, mia proprietà!
piede. E tu chi sei?
io. Io sono il padrone.
piede. Ah, tu sei il padrone?! e cammina allora!
io. Sfido io, quando tu non ti muovi come faccio a camminare?
piede. Oh guarda! allora non è il camminare che è la tua proprieta? ma io sono la tua proprietà; e se io non posso camminare, addio potenza: tu diventi schiavo del mio male, che m'impedisce di camminare.
io. Ma io resto io. anche se per un paio di giorni non cammino...o tu non cammini.
piede. Ah, così?! E se la bocca si rifiuta di mangiare, lo stomaco di digerire, gli intestini di dimenarsi, i polmoni di respiare, il sangue di correre, il cuore di battere...
io. Eh, va bene! basta! Lo so, voi siete il mio corpo; ma io non sono voi, e voi non siete io.
piede. Bada però che noi siamo il corpo con tutte le sue proprietà, che se tu sei il padrone nostro, non sei padrone delle nostre proprietà, ma queste sono le tue padrone, perché tu dipendi da loro e non loro da te...
io. Ma se io voglio posso impedire alla bocca di mangiare, ai polmoni di respirare; posso, posso anche far scorrere tutto il mio sangue, impor silenzio al cuore - posso uccidere voi ...e me.
piede. Meno male che hai aggiunto " e me"! - Lo puoi se lo vuoi. ma - lo vuoi?
io. Lo voglio.
piede. O perchè non lo fai?
io. Perché...perchè ora non mi fa comodo...
piede. Dunque non lo vuoi?
io. Non lo voglio.
piede. E se non lo vuoi, non lo puoi.
io. Ma dato il caso che lo volessi...
piede. E chi te lo darebbe questo caso?
io. Dato che avessi delle cause sufficienti, dei motivi imprescindibili che mi consigliassero, io lo farei e allora vedreste chi di noi è il padrone!
piede. Certo, padrone per noi quella sarebbe una brutta giornata - ma anche per te, poveretto!
io. Come per me? Io lo vorrei.
piede. Ma lo vorresti soltanto se te lo consigliassero quelle...non so più quali cose che hai detto. - Ora io non so come si fa a seguirli certi consigli.
io. Non capisci niente; si dice per modo di dire che le cause consigliano...
piede. In realtà, costringono...
io. Non costringono, ma quando uno ha sufficienti motivi ci si adatta ragionevolmente.
piede. Bella cosa dev'essere la ragione!
io. Certo è una bella cosa. Ma che vuoi dire?
piede. Quando uno è tormentato da una cosa e dall'altra, quando lo mettono in croce, lui prende un po' di ragione, e tutto va bene.
io. Proprio così.
piede. Bella cosa! Ma come è fatta questa ragione? Dev'essere uan terribile invenzione. Non ti piace una cosa, ci sono le "cause" che ti costringono: e questa ragione fa che la cosa ti piaccia  e le cause non costringono più ma consigliano.
io. Quanto sei ineducato! Le cause diventano cause soltanto perchè io ragiono, altrimenti non sono mica cause. Io capisco con la ragione che per poter fare questa cosa che voglio devo ora comportarmi in questo dato modo. Ora si dice: quello che io intendo di fare è il motivo o la causa di questa mie altre azioni.
piede. Ora ho capito. E tu e la ragione fate del vostro meglio per servire queste cose che tu "vuoi".
io. E' così.
pausa
piede. Povero padrone!
io. Perché povero?
piede. Perché tu sei nostro padrone, ti devi affaticare a servire tante "cose".
io. Ma che faticare? se mi dà piacere?!
piede. Meglio per te; ma a me dispiace d'aver un padrone, che ha piacere a far il servitore.
io. Guarda come parli, io non sono servo di nessuno, soprattutto mi piace esser uomo libero...
piede. Ma e quelle "cose"?
io. Quelle cose...si dice "quelle passioni"; ma io son anche padrone i vincere le passioni, quando la ragione me lo consiglia.
piede. Ora è la ragione che ti consiglia!!
io. Chi mi consiglia?! La ragione sono io...
piede. Finalmente conosco il tuo nome. Dunque tu "ragione" sei il padrone, e noi, corpo e passioni o cause o cose che siano, siamo la plebe. Vuol dire però che non hai bisogno di noi per esser tu quale sei, ragione?
piede. E allora resta!
Con strano e sempre più discorde gridìo - come d'un orchestra che provasse gli istrumenti per discordarli - le parti del corpo e le passioni si dispersero: in mezzo si sentì morire un fievole "oimè", "oilui". Poi tutto fu silenzio.

(Parte taglio di luce a perpendicolo, a prendermi mentre mi faccio scivolare il sipario addosso e esco avanzando fino alla tavola girevole, la porto al centro e vi salgo, in piedi, girando sotto un cono di luce, dico):

Per digerire la felicità, bisogna anzitutto avere il coraggio di trangugiarla; e coloro che meriterebbero forse la felicità sono precisamente quelli ai quali la felicità, come la concepiscono i mortali, ha sempre prodotto l'effetto d'un vomitivo.

(Blocco la ruota, su Lakmè, duetto dei fiori. Fine musica. Buio secco.)

Finis




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