ANIMO,
ANIMA!
Lo spazio
scenico è vuoto, a metà, frontale al pubblico, il piccolo sipario rosso chiuso,
che prosegue a terra con uno strascico altrettanto rosso fino al limite del
proscenio.
Entro in
scena da sinistra, sottobraccio la ruota girevole, in mutande e canottiera.
Luce da sagomatore tutto a destra; alzo la ruota sulla spalla, a farmene una
testa, dico:
Con le
parole guerra alle parole: il più grande talento è rendersi felici, e il genio?
Per conoscere la felicità, bisogna avere il coraggio di trangugiarla!
Indi poggio
ruota a terra e, ridendo di "M" (mmmmmmmm) mi siedo simil manichino
per l'esposizione dei collant e, iniziando a girare, dico:
Gli attori,
non sanno tener segreti. Spifferano ogni cosa.
(ferma,
tirando giù le gambe come una bambola sul divano d'antan)
Il resto, è silenzio?
(di nuovo su
le gambe e giro)
Neanche per
idea.
(di nuovo
ferma come sopra)
Noi sfidiamo
i presagi. Ha senso,
(riprendo a
girare con le gambe come sopra)
ha senso
anche la caduta d'un passero. Se è ora, non è dopo, e se dopo non è, allora è
adesso; e se adesso non è, dovrà pur essere.
(ferma come
sopra, in un gran sbadiglio)
Tutto è
aaaasssoluto.
(rigiro come
sopra)
Tutto è
tenersi pronti. Poiché nessuno sa quello che lascia, che importa lasciare prima
o poi? Lascia andare.
(A “lascia
andare” l'anima striscia per terra dicendo):
Prodromo.
(strisciando
per tutto proscenio, lentamente, faticosamente, avanzando come in trincea)
Finita, è finita, sta per finire, sta forse per finire. I chicchi si aggiungono
ai chicchi a uno a uno e poi, un giorno, all'improvviso, c'è il mucchio, un
piccolo mucchio, l'impossibile mucchio. Non possono più punirmi. E' finita,
ormai abbiamo finito. Non c'è più bisogno di te. Era ora. Vi lascio. Prima di
partire, dì qualcosa. Non c'è niente da dire. Ah! Qualcosa...che venga dal tuo
cuore. Dal mio cuore! Qualche parola...del tuo cuore. Il cuore, il cuore, i
cuori, i cuori...
(canto
cabaletta de La Sonnambula sdraiandosi a faccia in su)
Ah, vorrei
trovar parole, a spiegar com'io t'adoro, ma la voce, o mio tesoro, non risponde
al mio penzier! Ah, vorrei!
(sempre
sdraiata, ma su un fianco, guardando il pubblico)
E' facile
andare.
(riniziando
a strisciare verso sipario rosso)
Clov!
Niente! Clov! E' quel che chiamiamo guadagnare l'uscita. Ti ringraziamo Clov.
Ah, prego, sono io che vi ringrazio. Siamo noi che ringraziamo. Ancora una
cosa. Un'ultima grazia...
(alzando
braccio destro e scrollando mano verso il cielo)
Molla questa
mano, perdio, e crepa! Crepa!
(riabbassando
il braccio)
No?
(ristriscio)
Pazienza.
Pace alle nostre chiappe.
(da qui
carponi e gattonando dice il seguito, fin dentro sipario rosso)
Un po' di
poesia. Chiamavi...Reclamavi la sera; ed eccola che scende. Era il momento che
aspettavo. Lui non si rende conto, non conosce che la fame, il freddo e, in
fondo, la morte. Ma Voi! Voi dovreste sapere che cos'è ormai il mondo. Oh!
(sull'Oh!
dietro il sipario, su controluce, in piedi gradualmente)
Bè ce l'ho
fatta, ci sono arrivata, adesso basta. Ma sì! Bene.
(in ginocchio)
Padre mio!
Padre mio! Bene. E per finire? Ecco!
(canto
l'ultima battuta di Violetta, ormai è in piedi)
Ah, ma io
ritorno a viver, o gioia!
No?
Pazienza. Vecchio cencio
(accarezzo
sipario, in croce)
e allora che
sia finita, che salti in aria! Noooooooooooooooooooooooooooooo! Aita, aita,
parea dicesse; e da le aurate volte a lei l'impietosita Eco rispose:
(su musica,
finale dell'Aida)
O terra,
addio; addio valle di pianti sogno di gaudio che in dolor svanì
a noi si
schiude il cielo e l'alme erranti volano al raggio dell'eterno dì.
(mentre va
musica, piego foglietto/lamina e me la ficco sotto la lingua. A fine musica, su
occhio di bue frontale sul sipario, piccolo, il tanto da incorniciare testa e
spalle, oppure, lamina proiettata con dia. Sbuca testa, dico sbiascicando con
lamina in bocca):
Che per
nascere occorra morire, lo sanno anche gli uomini.
(sputo
lamina, sbucano le braccia, dico)
Ora moristi
e ora nascesti, o beatissima, in questo giorno. Dì a Persefone che ti liberò
proprio Bacchos.
(esco da
sipario e barcollando, malcerta sulle gambe, raccolgo lamina sputata, la
srotolo e leggo):
Ma quando
l'anima lascia la luce del sole, procedi diritto verso destra, tu che hai
tenuto bene a mente tutti i precetti. V'è sulla destra una fonte, accanto ad
essa si erge un bianco cipresso; lì discendono le anime dei morti per aver
refrigerio. A questa fonte non accostarti neppure; ma più avanti troverai la
fredda acqua che scorre dal lago di Mnemosyne: vi stanno innanzi custodi, ed
essi ti chiederanno perché mai esplori la tenebra dell'Ade. Di': "Son
figlia della Greve e del Cielo stellato; di sete son arsa e vengo meno: ma
datemi presto da bere la fredda acqua che viene dal lago". Ed essi son
misericordiosi e ti daranno da bere del lago di Mnemosyne. Allegrati, tu che
hai sofferto il patimento: tale non mai prima soffristi. Da mortale sei divenuta
un dio: capretto verso il latte ti lanciasti. Allegrati, allegrati tu che
procedi a destra verso i prati sacri e i boschi di Persefone.
(Indi su
musica suite per violoncello di Bach; esplodo in danza di gioia co(s)mica:
corsette verso destra, ma poi penso che chi mi guarda mi vede andare verso
sinistra e allora vado nella direzione opposta, ci ripenso e così, avanti e
indietro, fino alla fine del brano, quando esausta e felice faccio per
addentare una melograna trovata in una cesta a destra, ma subito mi riprendo e
parte registrazione):
Ferma!
Fermati infelice!
(Mi astengo
dall'addentare il frutto, e, trovando altre melagrane con tanto di boccino,
inizio, lungo la scia rossa che unisce il sipario al proscenio, una partita in
solitaria)
E' vano il
tuo errare in questi luoghi aspri e desolati. Davanti a te si stende la lugubre
pianura, a perdita d'occhio, e quello che vai cercando è sempre dietro a te.
Spingere lo sguardo avanti o in alto non è possibile, il cupo antro del Tartaro
ti preclude la visione di quel cielo che un tempo nella felice dimora di tuo
padre contemplavi con occhi innamorati. Ahimè, figlia di Giove, in quale abisso
ti sei perduta!
(Fine
registrazione. Riattacco):
Mi hanno
strappato via
i rapidi
cavalli dell'Orco;
il dio
spietato mi ha stretto
nelle sue
forti braccia.
E Amore...
Amore è volato sull'Olimpo, ridendo.
Dio
sfrenato, cielo e terra
per te non
erano abbastanza?
Vuoi
accrescere le fiamme dell'Inferno
con il tuo
fuoco?
Strappata
via, scagliata
in questo
abisso infinito.
Regina, qui!
Regina?
Davanti a me
si prostrano ombre soltanto.
Senza
speranza è il loro dolore.
Senza
speranza è la sorte dei defunti
e io non
posso mutarla.
A giudici
severi
li ha
consegnati il destino,
e fra di
loro mi aggiro,
io dea, io
regina,
io stessa
schiava del destino.
Anime dei
morti, nel vostro quieto andare
mi passate
solamente davanti:
no, la mia
strada non è con voi.
Nelle vostre
danze lievi, nei vostri segreti recessi,
nella vostra
dimora piena di sussurri
non c'è
fremito di vita come lassù nel mondo,
non c'è la
beatitudine che oscilla
fra dolore e
gioia.
E non vi è neppure nelle sue fosche ciglia
e nel suo
sguardo chiuso:
puoi
chiamralo sposo?
O dargli un
altro nome?
Amore,
Amore!
Per un breve
istante gli hai aperto il cuore. Perché?
E perché mai
per me
se tu sapevi
che si
sarebbe chiuso poi, per sempre?
Perché ha
voluto me, la figlia di Cerere?
Madre, Madre
mia!
La tua
divinità ha smarrito il suo potere
e tu perdi
tua figlia,
la figlia
che credevi felice.
Ahimè, certo
tu sei veuta,
certo hai
chiesto di me "Dov'è andata, dove?" tu gridi.
"Quale
strada ha preso il folle iddio?
Attraverso
le tenebre io la inseguirò,
non avrò
pace finché non la trovo
nessun
ostacolo, da nessuna parte,
potrà farmi
paura".
Ti guardano
i tuoi draghi
avvezzi a
percorrere ogni via, docili alla guida
ma nella
deserta solitudine ti perdi -
No, non di
qua, di qua no!
Non
nell'abisso della notte oscura,
dove non
osano addentrarsi gli Immortali,
non là dove
tua figlia giace
oppressa dal
peso dell'orrore. In alto, in alto
volgi in
alto il volo dei serpenti,
in alto alla
dimora di Giove!
Lui sa,
lui solo sa,
il re degli dei,
dov'è tua
figlia.
O padre
degli dei e degli uomini,
ancora sei
lassù sul tuo trono dorato,
dove così
spesso sollevavi
me, bambina,
con amore
e, per
gioco, tenendomi tra le braccia
mi facevi
oscillare nell'infinità del cielo, e io, sospesa così in alto, tremavo...
Mi sei padre
ancora?
No, non alla
tua altezza
nell'azzurro
eterno
del cielo
scintillante di luce –
Qui, qui!
Guidala qui!
Perché con
lei io possa
risalire da
questo carcere.
O padre
carissimo
tu mi
ascolti,
tu mi
solleverai
mi
solleverai in alto un'altra volta;
e io, libera
da questa lunga, greve pena
ritroverò
nel tuo cielo la mia gioia.
Fatti coraggio,
cuore desolato!
La speranza,
ah la speranza illumine
le tenebre
della notte tempestosa.
Non più
rocce né muschio
su questo
suolo,
non più solo
cupo orrore
su questi
monti:
un fiore, ho
ritrovato un fiore!
E questa
foglia appassita
è ancora
viva
e aspetta
ancora
di potermi
rallegrare.
E' strano!
E' strano!
Non è questo
il frutto
che tanto mi
piaceva
lassù, nei
miei giardini?
Lascia che
ti assapori
dolce
frutto,
fa' che io
dimentichi
tutti i miei
affanni,
fa' che io
immagini
di essere ancora
lassù
nel tempo
sereno
della mia
ridente giovinezza,
tra il
profumo dei fiori
e la delizia
degli aromi
che mi
stordivano
e
m'inebriavano.
(Addento la
melagrana)
E' dolce, è
buono! Ma ecco, all'improvviso
in questa
gioia
in questo
piacere intenso,
all'improvviso
irrompe
con mani di
ferro
con
agghiacciante dolore,
all'improvviso
irrompe l'Inferno –
che male ho
fatto
nel gustare
il frutto?
Perché la
gioia che provavo prima
qui mi dà
tormento?
Che cosa sta
accadendo?
E'
spaventoso: le rocce ricadono a strapiombo,
si chiudono
salde intorno a me.
Pesanti
nuvole gravano sul mio capo
e laggiù nel
lontano grembo dell'abisso
rombano
sordi tuoni di tempesta.
Nei loro
regni remote
le Parche mi
gridano:
(Parte
registrazione)
Tu sei
nostra!
Il decreto
di tuo padre è questo:
ritornare
senza aver toccato cibo;
e tu hai
morso il frutto: ora sei nostra!
Sei la
nostra Regina, ti onoriamo.
(Fine
registrazione. Riattacco):
Padre, tu
l'hai detto? Perché, perché?
Perché mi
hai ripudiato, che cosa ho fatto?
Perché non
mi richiami
al tuo trono
di luce?
Perché quel
melograno?
O frutto
maledetto!
Perché i
frutti sono belli se sono dannati?
(Riparte
registrazione)
Sei nostra.
Perché ti
affliggi?
Guarda, noi
ti onoriamo,
nostra Regina.
(Fine
registrazione. Riattacco):
Se il
Tartaro non fosse già la vostra dimora,
è là che
vorrei scagliarvi, maledette!
Sono regina
e
distruggervi non posso.
A voi mi
leghi l'odio, in eterno.
Attingete
l'acqua, figlie di Danao!
E voi,
Parche, tessete il filo!
Imperversate,
Furie furenti!
Un misero
destino ci unisce in eterno.
E io che
regno su di voi
sono di voi
tutte più misera.
(Su
registrazione)
Sei nostra.
Ci
inchiniamo a te.
Sei nostra,
nostra!
(Fine
registrazione. Riattacco):
Andate via!
E via da me
la vostra
fedeltà e il vostro impero.
Vi odio.
E te, ti
odio dieci volte tanto.
Ahimè, già
sento
il tuo
aborrito abbraccio.
Perché verso
di me stendi le braccia?
Rivolgile
all'Averno!
Sposo
orribile
ti odio
Plutone, o
Plutone, dammi la sorte dei tuoi dannati
ma non
chiamarla amore.
Scagliami
con queste tue braccia
nella pena
che annienta.
(Registrazione
tuoni. Cadendo a terra, recupero garza-lamina che sarà strada e bende. Fine
tuoni, dico Rilke):
Era l’ardua
miniera delle anime
Correvano nel
buio come vene
d’argento,
silenziose. Tra radici
sgorgava il
sangue che poi sale ai vivi
nella
tenebra duro come porfido.
Poi
null’altro era rosso.
V’erano
rocce
e boschi
informi. Ponti sopra il vuoto
e
quell’immenso grigio, cieco stagno
che premeva
sul fondo come un cielo
di pioggia
sui paesaggi della terra.
Fra i prati
tenue e piena di promesse
correva come
un lungo segno bianco
l’incerta
traccia della sola strada.
E
quell’unica strada era la loro.
Avanti
l’uomo nel mantello azzurro
agile, con
lo sguardo volto innanzi
muto e
impaziente. Il passo divorava
la strada a
grandi morsi. Gravi, rigide
cadevano le
mani dalla veste
e ignoravano
ormai la lieve lira
cresciuta
alla sinistra come un cespo
di rose in
mezzo ai rami dell’ulivo.
E i suoi
sensi rompevano discordi:
lo sguardo
andava innanzi, si aggirava
come un
cane, era accanto e poi di nuovo
lontano,
fermo sulla prima curva –
l’udito
indietro come resta un’ombra.
Talvolta
egli credeva di tornare
ai due che
indietro sulla stessa via
dovevano
seguirlo. Poi di nuovo
alle spalle
restava appena l’eco
dei suoi
passi e il mantello alto nel vento.
Ma diceva a
se stesso: Essi verranno –,
ad alta
voce, e si sentiva spegnere.
E tuttavia
venivano ma due
dal
lentissimo passo. Se egli avesse
potuto
volgersi un istante (e volgersi
era
annullare tutta quell’impresa
che si
compiva ormai) li avrebbe visti,
i due che
taciturni lo seguivano.
Il dio dei
viaggi e del lontano annunzio
che innanzi
a sé reggeva la sottile
verga, e
aveva sugli occhi il breve casco
e alle
caviglie un palpitare d’ali;
e affidata
alla sua sinistra: lei.
Lei cosí
amata che piú pianto trasse
da una lira
che mai da donne in lutto;
cosí che un
mondo fu lamento in cui
tutto ancora
appariva: bosco e valle,
villaggio e
strada, campo e fiume e belva;
e sul mondo
di pianto ardeva un sole
come sopra
la terra, e si volgeva
coi suoi
pianeti un silenzioso cielo,
un cielo in
pianto di deformi stelle –:
lei cosí
amata.
Ma ora
seguiva il gesto di quel dio,
turbato il
passo dalle bende funebri,
malcerta,
mite nella sua pazienza.
Era in se
stessa come un alto augurio
e non
pensava all’uomo che era innanzi,
non al
cammino che saliva ai vivi.
Era in se
stessa, e il suo dono di morte
le dava una
pienezza.
Come un
frutto di dolce oscurità
ella era
piena della grande morte
e cosí nuova
da non piú comprendere.
Era entrata
a una nuova adolescenza
e
intoccabile: il suo sesso era chiuso
come i fiori
di sera, le sue mani
cosí schive
del gesto delle nozze
che anche il
contatto stranamente tenue
della mano del
dio, sua lieve guida,
la turbava
per troppa intimità.
Ormai non
era piú la donna bionda
che altre
volte nei canti del poeta
era apparsa,
non piú profumo e isola
dell’ampio
letto e proprietà dell’uomo.
Ora era
sciolta come un’alta chioma,
diffusa come
pioggia sulla terra,
divisa come
un’ultima ricchezza.
Era radice
ormai.
E quando a
un tratto il dio
la trattenne
e con voce di dolore
pronunciò le
parole: si è voltato –,
lei non
comprese e disse piano: Chi?
Ma avanti,
scuro sulla chiara porta,
stava qualcuno
il cui viso non era
da
distinguere. Immobile guardava
come
sull’orma di un sentiero erboso
il dio delle
ambasciate mestamente
si volgesse
in silenzio per seguire
lei che
tornava sulla stessa via,
turbato il
passo dalle bende funebri,
malcerta,
mite nella sua pazienza.
(Mi scuoto
all'Alberto Sordi e dico):
E no, eh!
Così non ha da esse!
(Poi, con
voce da moviola annuncio):
Ma, torniamo
un attimo indietro!
(Su
registrazione all’indietro mentre torno letteralmente indietro sui miei passi,
ma di spalle, ripasso il sipario, lo metto di profilo al pubblico, rimango a
metà, inizio il dialogo tra l'io e il piede):
Io posso
rispondere con un fatto, un tragico fatto, che diede una soluzione inaspettata
ad un dialogo che m'è accaduto di sorprendere fra l'"io" e il suo
piede che si trovava ad esser distorto:
L'io - Che
fai cammina...
Il piede -
...
io. Stai lì
gonfio, stupido, silenzioso! parla!
piede. ...
io. Parla,
il padrone sono io!
piede.
Ahi!...
io. E di che
ti lamenti?
piede. Ohi!
io. Ma che
cosa ti fa male?
piede. Io!
io.
Scherzi?! suvvia, meno storie, cammina!
piede. Non
posso!
io. Perché
non puoi?
piede. Mi
duole!
io. Chi ti
duole?
piede. Io.
io. O
insomma! quante volte io mi dolgo - eppure
ho sempre camminato.
piede.
Bravo-o!
io. Di che
ridi ora?
piede. Di
te.
io. Anche
questo!
piede. (dà
segni d'ilarità)
io. Insomma
mi vuoi dire che cosa trovi tanto ridicolo?!
piede. Il
padrone non trova ridicolo un ragazzo che a cavallo d'una pietra crede di
viaggiare per tutto il mondo?
io. Questo
che c'entra?
piede. Il
padrone è come quel ragazzo!
io. Sei
pazzo!
piede. Non
sono mai stato più saggio! E il padrone non ha mai camminato! mai camminato!
mai camminato!...
io. Ma che
dici? che ne sai tu?
piede. Mai
camminato! e io lo so molto bene. Perché tu di lassù fermo fermo dicevi
"cammina". Ed io, povero cristo, cominciavo a manovrare per la
polvere, pel fango, pei sassi, in pianura e su pei monti, finché, come vedi, mi
sono ridotto in questo bello stato - e
tu vorresti farmi camminare ancora! Senza cuore!
io. Senza
cuore? questa sarebbe un'altra allusione.
piede. Già
ti dicono cordiale, ma non è mica merito tuo, è merito del tuo cuore...se
l'hai. Ma credo che tu non l'abbia!
io. Ma sono
tutte cose mie, tu sei mio, tutte le membra con tutte le loro potenze sono mie
e il cuore con tutte le sue passioni è mio, mia proprietà!
piede. E tu
chi sei?
io. Io sono
il padrone.
piede. Ah,
tu sei il padrone?! e cammina allora!
io. Sfido
io, quando tu non ti muovi come faccio a camminare?
piede. Oh
guarda! allora non è il camminare che è la tua proprieta? ma io sono la tua
proprietà; e se io non posso camminare, addio potenza: tu diventi schiavo del
mio male, che m'impedisce di camminare.
io. Ma io
resto io. anche se per un paio di giorni non cammino...o tu non cammini.
piede. Ah,
così?! E se la bocca si rifiuta di mangiare, lo stomaco di digerire, gli
intestini di dimenarsi, i polmoni di respiare, il sangue di correre, il cuore
di battere...
io. Eh, va
bene! basta! Lo so, voi siete il mio corpo; ma io non sono voi, e voi non siete
io.
piede. Bada
però che noi siamo il corpo con tutte le sue proprietà, che se tu sei il
padrone nostro, non sei padrone delle nostre proprietà, ma queste sono le tue
padrone, perché tu dipendi da loro e non loro da te...
io. Ma se io
voglio posso impedire alla bocca di mangiare, ai polmoni di respirare; posso,
posso anche far scorrere tutto il mio sangue, impor silenzio al cuore - posso
uccidere voi ...e me.
piede. Meno
male che hai aggiunto " e me"! - Lo puoi se lo vuoi. ma - lo vuoi?
io. Lo
voglio.
piede. O
perchè non lo fai?
io.
Perché...perchè ora non mi fa comodo...
piede.
Dunque non lo vuoi?
io. Non lo
voglio.
piede. E se
non lo vuoi, non lo puoi.
io. Ma dato
il caso che lo volessi...
piede. E chi
te lo darebbe questo caso?
io. Dato che
avessi delle cause sufficienti, dei motivi imprescindibili che mi
consigliassero, io lo farei e allora vedreste chi di noi è il padrone!
piede.
Certo, padrone per noi quella sarebbe una brutta giornata - ma anche per te,
poveretto!
io. Come per
me? Io lo vorrei.
piede. Ma lo
vorresti soltanto se te lo consigliassero quelle...non so più quali cose che
hai detto. - Ora io non so come si fa a seguirli certi consigli.
io. Non
capisci niente; si dice per modo di dire che le cause consigliano...
piede. In
realtà, costringono...
io. Non
costringono, ma quando uno ha sufficienti motivi ci si adatta ragionevolmente.
piede. Bella
cosa dev'essere la ragione!
io. Certo è
una bella cosa. Ma che vuoi dire?
piede.
Quando uno è tormentato da una cosa e dall'altra, quando lo mettono in croce,
lui prende un po' di ragione, e tutto va bene.
io. Proprio
così.
piede. Bella
cosa! Ma come è fatta questa ragione? Dev'essere uan terribile invenzione. Non
ti piace una cosa, ci sono le "cause" che ti costringono: e questa
ragione fa che la cosa ti piaccia e le
cause non costringono più ma consigliano.
io. Quanto
sei ineducato! Le cause diventano cause soltanto perchè io ragiono, altrimenti
non sono mica cause. Io capisco con la ragione che per poter fare questa cosa
che voglio devo ora comportarmi in questo dato modo. Ora si dice: quello che io
intendo di fare è il motivo o la causa di questa mie altre azioni.
piede. Ora
ho capito. E tu e la ragione fate del vostro meglio per servire queste cose che
tu "vuoi".
io. E' così.
pausa
piede.
Povero padrone!
io. Perché
povero?
piede.
Perché tu sei nostro padrone, ti devi affaticare a servire tante
"cose".
io. Ma che
faticare? se mi dà piacere?!
piede.
Meglio per te; ma a me dispiace d'aver un padrone, che ha piacere a far il
servitore.
io. Guarda
come parli, io non sono servo di nessuno, soprattutto mi piace esser uomo
libero...
piede. Ma e
quelle "cose"?
io. Quelle
cose...si dice "quelle passioni"; ma io son anche padrone i vincere
le passioni, quando la ragione me lo consiglia.
piede. Ora è
la ragione che ti consiglia!!
io. Chi mi
consiglia?! La ragione sono io...
piede.
Finalmente conosco il tuo nome. Dunque tu "ragione" sei il padrone, e
noi, corpo e passioni o cause o cose che siano, siamo la plebe. Vuol dire però
che non hai bisogno di noi per esser tu quale sei, ragione?
piede. E
allora resta!
Con strano e
sempre più discorde gridìo - come d'un orchestra che provasse gli istrumenti
per discordarli - le parti del corpo e le passioni si dispersero: in mezzo si
sentì morire un fievole "oimè", "oilui". Poi tutto fu
silenzio.
(Parte
taglio di luce a perpendicolo, a prendermi mentre mi faccio scivolare il
sipario addosso e esco avanzando fino alla tavola girevole, la porto al centro
e vi salgo, in piedi, girando sotto un cono di luce, dico):
Per digerire
la felicità, bisogna anzitutto avere il coraggio di trangugiarla; e coloro che
meriterebbero forse la felicità sono precisamente quelli ai quali la felicità,
come la concepiscono i mortali, ha sempre prodotto l'effetto d'un vomitivo.
(Blocco la
ruota, su Lakmè, duetto dei fiori. Fine musica. Buio secco.)
Finis
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